Coadiuvato da una certa letteratura, a cui recentemente si sono aggiunte anche cinematografia e serie tv, il concetto della donna con i soldi e dunque cattiva, badass, frustrata e arrogante è arrivato fino a noi, potente. Lo vediamo sul piccolo e sul grande schermo da decenni, ancora intatto. Se è vero che i film e le serie proiettano sullo schermo ciò che siamo nella vita vera con linguaggi e filtri più creativi, non è casuale che la rappresentazione delle donne al comando ricalchi uno stereotipo ben consolidato. Che, guarda caso, non è uguale allo stereotipo dell’uomo di potere: sicuro di sé, apprezzato, autorevole. 

La chiave per comprendere questa differenziazione sta in una parola: soldi, appunto. Una cosa da uomini, che nella narrazione comune (sociale ma anche individuale) è quasi ovvia, nonché meritata. Far carriera, ottenere promozioni e dunque rimpolpare lo stipendio è prerogativa maschile. Le donne con i soldi e dunque in una posizione di superiorità sono un’anomalia del sistema che può essere raccontata anche con termini sgradevoli.

Senza scomodare i protagonisti di sceneggiature più o meno sessiste, basta guardare nella quotidianità di molte famiglie o la vita professionale e privata di tante donne che ancora oggi hanno difficoltà a chiedere aumenti di stipendio, pretendere ciò che gli spetta, affermarsi economicamente dentro e fuori le mura domestiche. Per accendere un faro su queste situazioni e sradicare una mentalità purtroppo già masticata e digerita da molti, il lavoro di Global Thinking Foundation diventa necessario. La fondazione si occupa di sensibilizzare sul tema della violenza economica, intesa come strumento di controllo da parte del partner che può sfociare in vere e proprie forme di privazione della libertà. Attraverso progetti, mostre come quella itinerante Libere di… vivere, corsi e workshop mirati a diverse fasce d’età (a partire dai bambini, con Young612), si punta anche a capovolgere lo stereotipo purtroppo consolidato che lega le donna ai soldi. 

Perché le donne fanno fatica a chiedere soldi e promozioni

Non è solo privato e personale il motivo che, spesso, porta molte donne a respingere l’idea di chiedere più soldi e di ottenere promozioni e avanzamenti di carriera. E anche di parlarne liberamente con parenti, amici e colleghi. Ed è la storia a dirci perché: basta pensare all’errata convinzione che le donne con potenziale finanziario, in passato, gestissero malaffari e poco altro. I soldi, in quanto fonte di indipendenza e autonomia, erano sbagliati a prescindere: se pensiamo che dal 1865 e per parecchi decenni la legge Pisanelli ha controllato la situazione patrimoniale delle donne impedendo loro di possedere beni e di compiere azioni finanziarie senza il benestare del marito (del padre, del fratello o di un tutore: insomma, di chi aveva il potere – per legge – di controllarla), è facile comprendere come il rapporto tra soldi e donne sia sempre stato corrotto da tabù e limiti sociali e psicologici.

Il percepito – frutto anche di una interpretazione estrema dei dettami della cultura cristiana su cui l’Italia si fonda, ancora di stampo patriarcale – è che una donna con i soldi “chissà come li ha ottenuti” mentre un uomo con i soldi è tendenzialmente “una persona che si è fatta da sé”. Due concetti che, purtroppo, abbiamo interiorizzato. Non aiuta il fatto che parlare di soldi venga ritenuto poco educato, addirittura indelicato. Se a farlo è una donna, la sensazione di ascoltare un argomento che non dovrebbe proprio essere discusso ad alta voce si acuisce. I soldi sono panni sporchi da lavare in famiglia, soprattutto se di quella famiglia si è la controparte femminile.

Il lavoro di Global Thinking Foundation, tra le altre cose, punta a modificare questo approccio, mettendo al centro i soldi come chiave di autonomia, indipendenza, auto-affermazione. La violenza finanziaria di cui molte donne sono vittime più o meno consapevoli capovolge queste priorità, cementificando il concetto che fare soldi attraverso il duro lavoro sia sbagliato. Soprattutto se sei donna.

Su cosa si fonda il tabù dei soldi

In un illuminante articolo pubblicato sul New York Times che si chiama “Money is not Just for Men”, la giornalista Maya Salam ha intervistato l’ex dirigente di Wall Street Sallie Krawcheck – attualmente una delle avvocate più attive nella sensibilizzazione sul lavoro delle donne e del suo valore –  in merito al gender gap. L’articolo fotografa la situazione americana, ma anche in Italia la parità di genere e i suoi equilibri sono ancora decisamente altalenanti: Krawcheck sostiene che i soldi siano un costrutto prettamente maschile, filtrato da millenni di istituzioni patriarcali, ideato a immagine e somiglianza di una società di uomini. E che universalmente le donne associano al possedere denaro sentimenti ambivalenti, in cui prevalgono solitudine e preoccupazione, non potere, orgoglio, autostima.

Sebbene sia tra i 5 obiettivi dell’ONU da raggiungere entro il 2030, la parità di genere è ancora tanto, troppo lontana dal raggiungere livelli accettabili secondo l’approfondimento di Krawcheck e gli ultimi report aggiornati alla situazione pandemica. Un mondo in cui le donne (a parità di posizione), guadagnano come i colleghi uomini; hanno gli stessi diritti fuori e dentro il posto di lavoro; non vengono discriminate per le scelte personali; non sono più vittime preponderanti di fenomeni diffusi di violenza è possibile. Ma solo se si superano questi grandi gap da un punto di vista politico ed economico, prima che individuale:

Wage Gap ovvero il gap salariale

Si tratta della differenza tra gli stipendi tra uomo e donna a parità di posizione e competenza, ancora altissima: secondo il Gender Gap Report di JobPricing aggiornato al 2017 gli uomini, mediamente, percepiscono una retribuzione annua lorda (RAL) di 30.676 euro contro le 27.228 euro della controparte femminile. La situazione legata alla pandemia ha peggiorato considerevolmente le cose, con molti posti di lavoro persi in prevalenza femminile e tassi di disoccupazione da record. E un gap tra gli stipendi ancora più ampio.

Motherhood penalty

Si chiama motherhood penalty, il costo che una donna deve pagare quando decide di diventare madre. A cui si collega anche il peso psicologico che solo una donna deve sopportare quando le vengono rivolte domande sulla sua vita privata, sul numero di figli che ha in programma di fare e su come pensa di destreggiarsi con il loro accudimento in relazione al lavoro.

Violenze di genere

I numeri delle donne uccise da uomini aumentano ogni giorno di più.  E il linguaggio mediatico usato per descrivere questi efferati omicidi non fa altro che perpetrare lo stereotipo della “vittima che se l’è cercata”. Se allarghiamo lo zoom a tutte le declinazioni della violenza di genere, ci si accorge facilmente che le donne sono un bersaglio facile ed eletto da questa narrazione. E a parlare sono i numeri, i fatti. La violenza economica, analizzata sin dalle fasi più precoci (e dunque meno visibili, soprattutto se se ne è l’oggetto) dal manuale di prevenzione ideato e promosso da Global Thinking Foundation, non è che una faccia di questa medaglia volta a snaturare, minimizzare, sminuire il ruolo fondamentale delle donne nello schema di avanzamento politico e sociale a cui dovremmo tendere.

I limiti della negoziazione

Infine, il grande scoglio del denaro e della capacità (che nasce da un’intenzione) di negoziazione di promozioni e aumenti. Secondo la ricerca “Negotiating gender roles: gender differences in assertive negotiating are mediated by women’s fear of backlash and attenuated when negotiating on behalf of others” pubblicata sul Journal of Personality and Social Psychology, l’atteggiamento delle donne (a parità di condizione professionale) cambia rispetto al sesso della persona che si trovano davanti e alle possibili conseguenze della contrattazione. I ricercatori hanno notato che davanti a un uomo di potere, donne nella posizione di poter chiedere aumenti o promozioni hanno scelto di fermarsi, di non spingere sulla negoziazione. Tendenza che si inverte se percepiscono meno conseguenze (ad esempio il mobbing) o meno ostilità davanti alla loro richiesta.

I soldi non sono un peccato. Dunque, parliamone 

I limiti sulle negoziazioni nonché i tabù sui soldi non sono solo problemi femminili, ovviamente. Generalizzare non aiuta la causa e non inquadra al meglio la questione. Però rimane innegabile che le discriminazioni sul lavoro e le violenze di genere siano storicamente un peso delle donne; così come pesanti sono i valori che legano ai soldi, al loro possesso, agli aumenti. Fare soldi lavorando e avanzando con la carriera non è peccato e non è un crimine. Un concetto che dovrebbe essere genderless, e questo è quanto.

Per questo l’operato di Global Thinking Foundation, che col suo lavoro aiuta a inquadrare i soldi alla luce del loro potere individuale e globale, è fondamentale per comprendere che il denaro è uno strumento che non ci definisce come persone ma delinea i contorni del nostro ruolo nella società, nelle comunità in cui viviamo, nella famiglia che creiamo e nel contesto economico e nel mondo intero.

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Global Thinking Foundation nasce nel 2016 con lo scopo di promuovere l’educazione finanziaria, con una particolare attenzione alle donne e all’uguaglianza di genere.

  • I soldi delle donne