Lotte, rivendicazioni, successi: quella dell’emancipazione femminile è una strada lastricata di ostacoli da superare. In parte ce li siamo lasciati alle spalle, in parte abbiamo ancora un lungo percorso da fare, anche e soprattutto quando parliamo di donne in politica.

Certo, nemmeno un secolo fa non potevamo neanche votare e la situazione non è mai stata migliore di quella attuale, ma quanto pesa ancora il gender gap in politica?

Donne in politica nella storia

Ancor prima di pensarsi come elette, le donne hanno dovuto rivendicare la possibilità di essere elettrici: il cammino delle donne in politica, infatti, è iniziato con i passi delle suffragette e la lotta per il suffragio. Una battaglia che si è rivelata tutt’altro che facile e che ha impegnato oltre un secolo di storia.

Significativamente, in Italia la lotta per l’emancipazione femminile in politica ha visto una grande vittoria con la concessione del diritto di voto alle donne nel 1945 – con la significativa esclusione delle prostitute – la presenza femminile all’interno dell’Assemblea Costituente (21 elette su 556 membri) e l’ingresso nel primo Parlamento repubblicano delle prime quattro senatrici.

Sebbene in alcune parti del mondo le donne potessero votare già dal 1893 (è il caso della Nuova Zelanda), solo nel 1960 è stata eletta una donna a capo di un Paese: il 20 luglio, infatti, Sirimavo Bandaranaike è stata la prima ad essere nominata Premier dello Sri Lanka, e lo è stata per tre mandati (dal 1960 al 1965, dal 1970 al 1977 e dal 1994 al 2000).

Perché una donna potesse guidare un Paese europeo, però, sarebbero dovuti passare quasi altri 20 anni: solo con la vittoria di Margaret Thatcher alle elezioni del Regno Unito, il 3 maggio 1979, per la prima volta l’Occidente vide su uno dei suoi scranni più alti un volto femminile.

Le donne in politica oggi

Per fortuna, in molte parti del mondo la situazione è cambiata: dalla prima donna a ricoprire il ruolo di vicepresidente degli Stati Uniti Kamala Harris alle giovanissime deputate statunitensi che hanno portato al congresso le istanze più progressiste del Paese, a tutte le donne a capo dei loro paesi a molte delle latitudini del mondo (Halimah Yacob a Singapore, Jacinda Ardern in Nuova Zelanda, Sanna Marin in Finlandia, Angela Merkel in Germania è al quarto mandato e Ursula Gertrud von der Leyen alla Commissione Europea), possiamo dire che davvero qualcosa si sta muovendo, anche se la strada è ancora lunga, come mostrano i dati sulle donne in politica:

  • Le donne servono come capi di Stato o di governo solo in 22 paesi e 119 paesi non hanno mai avuto una donna leader. Al ritmo attuale, l’uguaglianza di genere nelle più alte posizioni di potere non sarà raggiunta prima di altri 130 anni.
  • Solo 10 paesi hanno un capo di Stato donna e 13 paesi hanno un capo di governo donna.
  • Solo il 21 per cento dei ministri del governo erano donne, con solo 14 paesi che avevano raggiunto il 50 per cento o più di donne nei gabinetti. Con un aumento annuo di appena 0,52 punti percentuali, la parità di genere nelle posizioni ministeriali non sarà raggiunta prima del 2077.
  • I cinque portafogli più comunemente tenuti dalle donne ministro sono: Famiglia/bambini/giovani/anziani/disabili; seguito da Affari sociali; Ambiente/risorse naturali/energia; Occupazione/lavoro/formazione professionale e Affari femminili/uguaglianza di genere.

Anche all’interno del parlamenti, c’è ancora molto da fare: solo il 25% di tutti i parlamentari nazionali sono donne (erano l’11% nel 1995) e solo quattro paesi hanno il 50% o più di donne in parlamento nelle camere singole o basse: il Ruanda con il 61%, Cuba con il 53%, la Bolivia con il 53% e gli Emirati Arabi Uniti con il 50%.

Altri 19 paesi hanno raggiunto o superato il 40%: nove in Europa, cinque in America Latina e Caraibi, quattro in Africa e uno nel Pacifico.
A questo ritmo, la parità di genere negli organi legislativi nazionali non sarà raggiunta prima del 2063.

Donne in politica in Italia

In Italia, come spesso accade, la situazione è ancora peggiore: la componente femminile in Parlamento è circa del 35 per cento – la più alta finora, ma non ancora abbastanza rispetto agli altri paesi – e nel governo in carica le ministre sono 8 su 21, di cui 5 senza portafoglio e in diversi casi in ministeri storicamente ritenuti “femminili”, come politiche giovanili, pari opportunità e famiglia, disabilità.

Il nostro paese non ha mai avuto un primo ministro donna e anche le figure femminile in ruoli istituzionali apicali si contano sulle dita di una mano: tre Presidenti della Camera – Nilde Iotti (eletta lo stesso anno in cui Margaret Thatcher arrivava a Downing Street), Irene Pivetti e Laura Boldrini, e un’unica Presidente del Senato, Maria Elisabetta Alberti Casellati.

Nilde Iotti. Una storia politica al femminile

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Luisa Lama racconta la figura pubblica e privata di Nilde Iotti, una delle donne più importanti della politica italiana di sempre.
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Sebbene ci sia un numero sempre crescente di ministre, troppe situazioni mostrano ancora come spesso le donne in politica in Italia rivestano ancora un ruolo ancillare rispetto alla controparte maschile, come ha tristemente ricordato la conferenza stampa in cui Renzi ha annunciato le dimissioni delle ministre Bonetti e Bellanova dal Governo Conte mentre le dirette interessate tacevano al suo fianco.

Donne in politica, stereotipi e sessismo

Per decenni le donne si sono sentite definire inadatte alla politica. Troppo umorali, troppo emotive, incapaci di pensieri profondi come quelli degli uomini. Il cammino delle donne in politica è sempre stato accompagnato da stereotipi e sessismo, un connubio che almeno nel nostro paese non sembra destinato a rompersi nel breve periodo.

Ne sono una prova gli attacchi subiti da Laura Boldrini nel suo ruolo di Presidente della Camera, vittima di una campagna d’odio sui social senza precedenti, condotta da sedicenti leoni da tastiera ma alimentata anche dai principali leader del partiti avversari, da Salvini che si è presentato a un comizio con una bambola gonfiabile «sosia della Boldrini» a Grillo che ha alimentato gli istinti peggiori dei suoi elettori e commentatori con il post «Cosa faresti se ti trovassi la Boldrini in macchina?».

Ma quello di Laura Boldrini non è che un esempio – uno dei peggiori – di quanto le donne in politica debbano lottare non solo per affermare la propria voce e le proprie istanze ma anche per respingere e combattere le accuse di chi le vuole in parlamento «solo perché brave a fare i p*mpini» – come detto dal 5* De Rosa alle colleghe del PD in commissione Giustizia – i giudizi sul look (anche in occasioni istituzionali come i giuramenti dei nuovi governi) e le attacchi di chi ancora chiedono come possono conciliare carriera politica e cura dei figli, come ha ricordato Ursula von der Leyen

A troppe di noi è stato detto di scegliere tra essere madre e fare carriera. Come madre di sette figli e come presidente della Commissione europea, mi permetto di dissentire.

Per questo, sembra che per essere accettate in politica le donne debbano comportarsi come gli uomini. Un modello, questo, sposato da Margaret Thatcher, che al modello di governo e potere maschile si è allineata e adeguata, e rifiutato invece dalla cancelliera Angela Merkel che, sebbene sia mai stata un’aperta femminista, ha rappresentato un modello politico femminile assolutamente non mascolino o machista.

Donne in politica e “quote rosa”

È significativo che tra i Paesi che presentano oltre l 40% di parlamentari nei loro organi legislativi

Più di due terzi di questi paesi hanno applicato quote di genere, sia quote di candidati per legge o posti riservati, aprendo spazio alla partecipazione politica delle donne nei parlamenti nazionali.

Quando si discute di quote rosa, però, spesso le posizioni si fanno nette e gli oppositori si appellano alla necessità di far valere come unico criterio la meritocrazia, che – secondo loro – non ha genere. Questo potrebbe forse essere vero se tutti, uomini e donne, avessimo le stesse condizioni di partenza e se potessimo concorrere nell’agone politico ad armi pari.

La realtà – e i dati – però, ci dicono che non è così e che le quote rosa sono invece uno strumento indispensabile per colmare un gap che, in assenza di regolamentazioni, continuerebbe a mantenere la componente femminile fuori dalle sale del potere.

Uno studio condotto al Dipartimento di Psicologia dell’Università di Bologna e pubblicato su Social Pychological Bulletin mostra come l’influenza degli stereotipi di genere continui a influenzare la possibilità delle ragazze di avvicinarsi alla politica:

i risultati della nostra indagine mostrano la persistenza di un divario di genere tra le forme di partecipazione scelte da ragazze e ragazzi”, spiega Serena Stefani, prima autrice dello studio. “Questo apre interrogativi su quanto la trasmissione di ruoli di genere tradizionali possa influenzare le preferenze delle giovani generazioni nell’intraprendere determinate tipologie di azioni politiche o civiche”.

Dallo studio emerge infatti che i giovani uomini partecipano più spesso ad attività politiche convenzionali, legate ai partiti, e ad azioni dirette come proteste e manifestazioni, mentre le giovani donne partecipano più di frequente ad attività di impegno civico e ad azioni online. Ricerche realizzate in passato su questo tema avevano ipotizzato che fossero fattori come il reddito, l’accesso all’istruzione e il maggior impegno femminile nel lavoro domestico e di cura ad influenzare queste differenze. Ma la nuova indagine del gruppo di ricerca dell’Università di Bologna, analizzando anche i livelli di istruzione e socioeconomici del campione coinvolto, suggerisce invece che alla base di queste differenze possa esserci la pressione normativa del ruolo di genere.

E questo vale solo per un Paese occidentale come l’Italia, ma pensiamo che – come denuncia Save the Children – la pandemia potrebbe aggravare la situazione di tutte quelle bambine che non possono nemmeno andare a scuola e che, secondo i dati, nei paesi a basso reddito avrebbero totalizzato mediamente il 22% in meno di giorni di scuola rispetto ai coetanei maschi.

Una denuncia che è arrivata durante il W20 summit, uno degli engagement group del G20, il vertice dei Capi di Stato e di Governo delle principali economie mondiali, che si è tenuto a Roma dal 12 al 15 luglio, il cui obiettivo era proprio

gettare la base per rappresentare gli uomini e le donne in maniera equa sia nel lavoro sia nella famiglia,

discutendo di lavoro e imprenditorialità femminile, accesso all’istruzione e ai servizi di cura, presenza paritaria nelle sale decisionali, divario salariale e tecnologico, di lotta agli stereotipi di genere e alla violenza sulle donne.

 

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