È un riciclo sicuramente creativo, divertente, ecologico, ma comunque non privo di problemi; parliamo del thrift flipping, un trend legato alla moda che ha preso il via dai social, trovando sempre più consensi nei giovanissimi.

Cos’è il thrift flipping?

Il termine prende le mosse da “thrift“, che significa parsimonia, e “flipping“, preso in prestito dal linguaggio immobiliare, in ci si usa la parola per descrivere un’operazione in cui si compra, si ristruttura e si rivende un immobile a un prezzo che tenga conto degli interventi eseguiti e del massimo profitto realizzabile.

Parliamo dell’arte di alterare e personalizzare capi di seconda mano, adattando ad esempio abiti di taglie diverse al proprio fisico.

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Nascita e storia del thrift flipping

Come detto, siamo di fronte a un trend nato e sviluppatosi principalmente sui social, in particolare su Tik Tok. Lì, nel giugno dello scorso anno, la TikToker Mariel Guzma ha mostrato come ha rivisitato un paio di jeans da uomo, taglia 44, tagliandoli e cucendoli per adattarli al proprio fisico.

Il video è stato molto apprezzato, visto che ha ottenuto più di 500 mila like e 3000 commenti, e l’hashtag #thriftflip ha guadagnato qualcosa come 750 milioni di views.

Gli aspetti positivi del thrift flipping

Visto che la Generazione Z sembra prestare particolare attenzione all’ecosostenibilità, l’idea del thrift flipping coniuga il desiderio dei giovani di seguire i trend del momento con il bisogno di fare qualcosa in più per l’ambiente, tema diventato di primario interesse anche per le lotte pacifiche di Greta Thunberg, grazie anche al riciclo, ad esempio.

Mentre l’industria della moda produce il 10% delle emissioni globali di anidride carbonica e circa l’85% dei tessuti finisce nelle discariche degli Stati Uniti, i ragazzi sembrano andare in direzione opposta. Visto così sembrerebbe tutto perfetto, e in apparenza non sembrerebbe esserci un solo aspetto negativo di questo nuovo trend. Eppure, le cose non stanno esattamente così.

Thrift flipping e grassofobia

Più d’uno sostiene che il thrift flipping non farebbe che sviluppare, o far acuire, la grassofobia; questo perché nella stragrande maggioranza dei video postati sui social ci sono ragazze magrissime che comprano vestiti usati, generalmente di taglie molto più grandi rispetto alla loro, e li rimodellano adattandoli al proprio fisico.

Lo storytelling stesso dei video thrift flip ha alcuni elementi riconducibili alla grassofobia, come il “prima” e il “dopo” dei capi indossati, che sono uno specchio piuttosto preciso di come la società veda le taglie larghe e, di conseguenza, chi le indossa. All’inizio delle clip il creator, generalmente magro, indossa vestiti che appaiono sformati, e lo fanno sembrare goffo e sgraziato; una volta aggiustato, anche il creator diventa di colpo più attraente.

Una deriva grassofobica con cui sembrano concordare anche alcuni studiosi, come la professoressa associata di Instruction in Sociology alla Temple University e autrice di Fashioning Fat: Inside Plus-Size Modeling, Amanda M. Czerniawski:

[Questi video] si conformano agli stereotipi sui corpi grassi, che vengono generalmente considerati poco sani, indisciplinati, pigri e indesiderabili. È come se io prendessi un capo extra-large e gli dessi una nuova forma, lavorandoci su proprio come lavorerei su corpo grasso, allenandolo e tonificandolo per farlo tornare alla forma corretta.

Non sembra reggere neppure la teoria dei thrift flipper per cui, se non comprassero loro questi capi extra large, finirebbero in discarica; la smentisce ad esempio Vaughn Stafford Gray, lifestyle writer ed ex Professore Associato di Business presso l’Humber College:

I pezzi che restano sugli scaffali per circa un anno ritornano nelle raccolte per i senzatetto o in quelle destinate ai centri di accoglienza. Se anche lì dovesse rimanere qualcosa, verrà riciclata e solo in ultima battuta mandata in discarica – in ogni caso, aggiunge – Gran parte degli abiti vengono effettivamente venduti, perché ci sono famiglie che possono permettersi di acquistare solamente nei negozi dell’usato.

Un altro dei problemi legati al thrift flipping è anche il fatto che, se persone con una corporatura giudicata “standard” comprano taglie extra large allo scopo di rimodellare quegli abiti per riadattarli al proprio fisico, ciò significa che non ci sono scorte a sufficienza per chi invece ha effettivamente bisogno di quelle taglie.

E questa diventa una discriminante importante se pensiamo in termini di “opportunità” offerte alle persone con taglie che vadano al di là di una M: come spiega perfettamente la scrittrice e Fat Influencer Chaya Milchtein.

Se vado da Goodwill non ci sono capi della mia taglia. Nei rari casi in cui li trovo, spesso sono sciatti e fuori moda, di certo non qualcosa che vorrebbe vestire una ragazza di 25 anni come me. Non è il TikToker che trasforma una maglietta ‘della mia taglia’ in un crop top a ferirmi. A farmi male sono le persone che non mi permettono di avere abbastanza indumenti sostenibili da indossare. Sono loro che stanno creando il problema.

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