I media si sono occupati, e continuano a occuparsi spesso, di casi altamente mediatici in cui diverse survivor, dopo l’arresto di un abuser noto al pubblico, o la testimonianza di una delle vittime, iniziano a narrare coralmente la propria storia, in un devastante e potentissimo effetto domino.

Il problema non è che i giornali, o i programmi tv, non parlano abbastanza di stupro, ma che lo fanno nel modo sbagliato: il racconto non è mai incentrato sulle vittime, ma sulla messa in discussione della loro credibilità, sul tempo passato prima della denuncia, sulla presunta responsabilità per aver acconsentito a una cena, o un invito a casa, o ancora sull’aver riflettuto per troppo tempo sulle ripercussioni lavorative prima di aver parlato; il tutto condito da dettagli macabri e pietismo più l’immaginario tipico della vittima perfetta, figlio di una cultura altamente sessuofobica e patriarcale (il matrimonio riparatore è stato abolito in Italia solo nel 1981, l’esempio di come abbiamo da sempre, come Paese, un enorme problema di deumanizzazione della vittima, i cui sentimenti e desideri sono storicamente considerati secondari alla reputazione delle persone coinvolte) e di decenni di fiction cattolico-smielate che hanno impresso per sempre, nelle nostre menti, un’idea pericolosamente distorta e fuorviante di stupro.

E a proposito di televisione, lasciatemi riflettere per un attimo, prima di passare alla narrazione dei grandi casi giudiziari americani, su quanto sta accadendo intorno ad Alberto Genovese, l’imprenditore accusato di aver stuprato diverse ragazze, dopo averle drogate e immobilizzate, nei suoi lussuosissimi appartamenti fra Milano ed Ibiza: come da copione al centro vengono messi ancora la reputazione dell’abuser, i suoi meriti e debolezze, l’uomo che in fondo è cacciatore, con ospitate televisive di amici, parenti e opinionisti misogini messi lì apposta a sindacare l’innocenza delle survivor, in un circo che risulta praticamente una seconda violenza ai danni delle vittime. Insomma, un copione già visto.

Eppure, le testimonianze delle altre survivor sono fondamentali, sia per i processi, quindi a livello legale, sia per la lotta alla cultura dello stupro e la prevenzione delle violenze sessuali stesse. E ce lo insegna la storia dei grandi scandali americani.

Il Movimento #metoo

Ricordate Il #metoo? L’hashtag si è diffuso viralmente online nel 2017, a partire dagli Stati Uniti, ed è stato ampiamente usato su diversi social media per dimostrare la diffusione della violenza di genere, soprattutto sul posto di lavoro, subita dalle donne.

L’espressione è stata usata per la prima volta in questo contesto dall’attivista Tarana Burke nel 2006, ma è stata resa popolare da Alyssa Milano quando, il 17 Ottobre del 2017, ha incoraggiato pubblicamente le donne ad usarla su Twitter in relazione al caso Harvy Weinstein: il 30 ottobre dello stesso anno, novantatre donne si sono ufficialmente dichiarate vittime di Harvey Weinstein; tra le più famose Asia Argento, Rose McGowan, Gwyneth Paltrow, Lupita Nyong’o, Angelina Jolie.

Su Facebook, l’hashtag è stato usato da più di 4,7 milioni di persone in 12 milioni di post nelle prime 24 ore; Facebook riportò che, solo negli Stati Uniti, il 45% degli utenti conosceva almeno un contatto che aveva scritto un post contenente l’hashtag. Sull’onda del movimento, in occasione della festa della donna dell’8 marzo 2018, è stata organizzata una giornata di sciopero e di manifestazioni che ha coinvolto più di 70 paesi nel mondo.

Il caso Epstein

Nel marzo 2005, una donna contattò il Dipartimento di Polizia di Palm Beach in Florida per denunciare che la figlia, di soli 14 anni, era stata portata nella villa dell’imprenditore Jeffrey Epstein da una ragazza più grande, ed era stata presumibilmente pagata 300$ per spogliarsi e massaggiare Epstein.

La polizia di Palm Beach iniziò così un’indagine sotto copertura di 13 mesi, inclusa una perquisizione della suddetta casa. Coinvolta, l’FBI ha compilato rapporti su “34 minori confermati”, poi 40. Le dichiarazioni di Julie Brown del 2018 sul Miami Herald hanno poi permesso di identificare circa 80 vittime, localizzandone circa 60, tra cui ragazze che sono state reclutate dal Brasile e da altri paesi sudamericani, ex paesi sovietici ed Europa, e che l’agenzia di modelle “MC2” di Jean-Luc Brunel forniva le ragazze appositamente a Epstein per essere trafficate.

Fu di Virginia Roberts Giuffre la dichiarazione più coraggiosa: affermò infatti di essere stata vittima di trafficking, all’età di 17 anni, da parte di Epstein e della sua compagna Ghislaine Maxwell, e incolpò, tra gli altri, il principe Andrea (fratello di Carlo d’Inghilterra) e il professore di diritto di Harvard in pensione Alan Dershowitz.

Negli anni successivi Sarah Ransome, Maria Farmer, Jennifer Araoz, Teresa Helm, Teala Davies, testimoniarono tutte di essere survivor di Epstein, Maxwell e la loro cerchia, dando una spinta fondamentale alla condanna dei responsabili e alla percezioni della violenza sessuale nel mondo.

La nazionale di ginnastica americana

Larry Nassar, ex medico del team di Ginnastica Usa, è stato accusato da oltre 500 donne e ragazze di abusi sessuali camuffati da cure mediche, tra il 1992 e il 2015.

Nel 2018, è stato condannato a 175 anni in una prigione statale del Michigan.

Da quando lo scandalo è stato segnalato per la prima volta dall’Indianapolis Star nel settembre 2016, più di 265 donne, tra cui l’ex membro della nazionale USAG Jessica Howard, Jamie Dantzscher, Morgan White, Jeanette Antolin, McKayla Maroney, Aly Raisman, Maggie Nichols, Gabby Douglas, Simone Biles, Jordyn Wieber, Sabrina Vega, Ashton Locklear, Kyla Ross, Madison Kocian, Amanda Jetter, Tasha Schwikert, Mattie Larson, Bailie Key, Kennedy Baker, e Alyssa Baumann, hanno accusato Nassar di averle aggredite sessualmente. Rappresenta uno dei più grandi scandali di abusi sessuali nella storia dello sport.

Anche qui, fondamentale la reazione a catena e la solidarietà fra vittime, alcune molto famose, visto soprattutto il tentativo di insabbiamento da parte della Federazione di Ginnastica americana e l’ambiente da essa creato, fatto di abusi psicologici e violenze, che ha permesso a Nassar di agire indisturbato. La storia è narrata magistralmente nel documentario Atleta A di Netflix.

Perché queste storie sono così importanti?

Perché mostrano la reale diffusione del problema, ricordandoci che la fama, il privilegio, l’accoglienza negli ambienti maschili, rifiutare la realtà della situazione o fingere di non aver bisogno del femminismo non ci metteranno mai davvero al sicuro, non se non combattiamo tutte unite per cambiare la mentalità alla base della cultura dello stupro. Non se non ammettiamo di avere un problema, un problema di putrefazione fin dentro le fondamenta della società in cui viviamo, un mondo comandato da uomini che non tiene minimamente alla nostra incolumità in quanto esseri umani. E allora abbiamo il diritto e il dovere morale di pensarci da sole.

Il valore delle testimonianze, a livello legale, certo, ma soprattutto a livello psicologico, di coesione, di sorellanza, di educazione, è immenso: spiegare cosa è sbagliato, o inappropriato, non solo aiuta altre survivor a sentirsi meno sole e incomprese, e questo ha ovviamente, sulle vittime, un impatto psicologico enorme, ma istruisce anche le donne a evitare situazioni a rischio, a capire quando si passano certi limiti, a imparare a difendersi dal sistema e a valutare correttamente gli episodi che fanno sorgere delle domande.

Ma, soprattutto, un esercito di donne che lottano fa paura. Lo vediamo accadere con la violenza online contro le attiviste, o le donne famose che usano il proprio spazio per parlare di violenza di genere, l’odio sui forum e i gruppi telegram cresce man mano che alziamo la testa: e più siamo pericolose, più troviamo il coraggio di narrare e denunciare, meno gli uomini tenteranno di stuprarci; crollando il muro della vergogna, infatti, e con esso il mito dell’onore della donna basato sul numero di persone con cui è andata a letto, dissolvendosi sempre più la sessuofobia nella società e il tabù delle violenze, possiamo realmente far calare il numero di violenze sessuali nel mondo.

Ma è sempre e solo insieme che possiamo farcela, sempre e solo per mano, creando un muro di sorellanza virtuale che attraversa ogni confine, ogni differenza, ogni barriera.

Dobbiamo solo crederci un po’ di più.

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