Con l’importanza sempre più evidente del ruolo dei social media nelle nostre vite tutto ciò che prima si diceva con la certezza che rimanesse circoscritto nelle mura di casa o, tutt’al più, al livello della chiacchiera da bar è stato esposto e dato in pasto alla Rete senza filtri né censure. Ma, se da un lato Internet ha portato la democratizzazione sociale a un piano superiore, ove chiunque possa sentirsi in diritto di disquisire di qualsivoglia argomento pur senza avere competenze tecniche in merito, proprio come farebbe nell’intimità della sua casa o fra amici, dall’altro lato il rovescio della medaglia, non irrilevante, è che sovente si ha un iper abuso del concetto di libertà d’espressione, assurta ormai più a frase fatta con cui farsi scudo per districarsi nel complesso mondo dei social.

È invece di fondamentale importanza comprendere che alcune frasi, parole, espressioni, non dovrebbero esser pronunciate neppure durante una conversazione confidenziale, figuriamoci in un luogo che, seppur virtuale, è comunque veicolatore di informazioni e comunicazione. Tutto ciò che ha a che fare con la sfera dell’incitamento all’odio, sia esso religioso, razziale, sessuale, dovrebbe infatti rimanere estraneo al contesto dei social network (oltre a quello domestico, ma ahimè su questo si può fare ben poco).

La giurisprudenza americana ha ideato una formula che comprende proprio tutto queste genere di parole e discorsi, la cui unica funzione è di esprimere odio e intolleranza verso, all’occorrenza, persone o gruppi: si chiama hate speech, e la sola, infausta conseguenza che può avere è di provocare scontri verbali sui social – nella migliore delle ipotesi – o vere e proprie reazioni violente contro il gruppo incriminato o da parte di quel gruppo. Nel linguaggio ordinario viene utilizzato in maniera molto più generica per indicare ogni tipo di offesa fondata su una qualsiasi discriminazione, eppure, sia sul piano giuridico che su quello umano, non sempre è semplice condannare questo genere di atteggiamento, trattandosi di argomento che sta perennemente sospeso in un precario equilibrio con il discorso della libertà di parola.

Quest’ultimo, infatti, è un principio tutelato dal Primo emendamento della Costituzione degli Stati Uniti, mentre in Italia è regolato dall’articolo 21 della Costituzione (“Tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione”).

Insomma, pare chiaro che arginare lo spiacevole fenomeno dello hate speech non sia facile, anche se le gestioni dei vari social network si stanno impegnando moltissimo per monitorare costantemente la situazione, impresa resa ancora più ardua dal fatto che, in tali contesti, non esistano specifiche normative internazionali condivise.
YouTube, acquisita da Google nel 2006, ad esempio, vieta esplicitamente lo hate speech, ovvero il linguaggio offensivo di tipo discriminatorio, mentre Facebook, pur vietandolo, concede un deroga a quelli che sono giudicati “messaggi con chiari fini umoristici o satirici”. Twitter, infine, si dimostra decisamente più aperto, non vietando esplicitamente lo hate speech, fatta eccezione per la nota sugli annunci pubblicitari.

Facciamo ora alcuni esempi che spiegano in maniera chiara perché il confine tra ciò che è ammesso e ciò che invece è considerato hate speech è tanto labile: Facebook, ad esempio, vieta gli attacchi ai gruppi ma non alle istituzioni; sono pertanto ammessi commenti come “odio l’Islam”, “odio il Papa”, mentre scrivere che si odiano i musulmani o i cattolici è considerato incitamento all’odio. Allo stesso modo, sono concesse le caricature dei membri di un gruppo – ricordate le tante vignette di Charlie Hebdo sui leader musulmani, compreso Maometto? – ma non si può diffamare interamente il gruppo. Ma le oggettive difficoltà con cui i social network si trovano ad avere a che fare li ha anche spinti a “delegare” il sistema di valutazione dei contenuti offensivi o critici al pubblico, attraverso il sistema delle segnalazioni.

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Ma proprio perché tracciare il limite oltre il quale si può parlare di incitamento all’odio e non di libertà di espressione è piuttosto complesso, capita che ciascuno di noi, pur se involontariamente, cada spesso nel tranello e scriva cosa che possono essere considerate hate speech.

Le 3 forme più comuni dell’hate speech

hate speech
Fonte: web

Abbiamo visto recentemente come alcuni esponenti politici siano stati i primi a pagare per gli insulti nei confronti delle colleghe Laura Boldrini e Cécile Kyenge.

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Peraltro, proprio l’ex Presidente della Camera ha presieduto, nel 2017, la Commissione “Jo Cox” sui fenomeni di odio, intolleranza, xenofobia e razzismo, nella cui relazione finale si legge:

La relazione finale esamina le dimensioni, le cause e gli effetti del discorso di odio (hate speech) definito come: ‘l’istigazione, la promozione o l’incitamento alla denigrazione, all’odio o alla diffamazione nei confronti di una persona o di un gruppo di persone, o il fatto di sottoporre a soprusi, molestie, insulti, stereotipi negativi, stigmatizzazione o minacce tale persona o gruppo, e comprende la giustificazione di queste varie forme di espressione, fondata su una serie di motivi, quali la ‘razza’, il colore, la lingua, la religione o le convinzioni, la nazionalità o l’origine nazionale o etnica, nonché l’ascendenza, l’età, la disabilità, il sesso, l’identità di genere, l’orientamento sessuale e ogni altra caratteristica o situazione personale (definizione ECRI-Consiglio d’Europa).

Con questa premessa, è chiaro perché le parole che auguravano alla Boldrini lo stupro possano rientrare nel contesto dell’hate speech; peraltro, proprio le donne sono tra i bersagli più colpiti dalle frasi di incitamento all’odio, tanto che, come rivela un rapporto di Amnesty International, su Twitter esiste un “Toxic Twitter” costituito di “violenza e molestie online contro le donne”. Proprio Amnesty, nel marzo 2018, ha lanciato anche una petizione, rivolta al direttore generale di Twitter Jack Dorsey, in cui si legge: “Twitter afferma di essere un faro della libertà di espressione, ma il suo fallimento nell’affrontare adeguatamente la violenza e gli abusi online contro le donne sta mettendo a tacere o costringe alcune donne ad abbandonare la piattaforma”.

Quindi i commenti misogini, rivolti alla fisicità delle donne ma anche al loro status, sono senz’altro una delle forme in cui si manifesta l’hate speech.

1. L’hate speech contro le donne

Dire di una donna (o delle donne in generale) che “merita uno stupro”, che “è una tr**a”, che “dovrebbe morire” è un modo per incitare all’odio verso la singola persona, qualora il soggetto del commento sia facilmente identificabile, o l’intero genere femminile. Senza dimenticare l’orrendo esempio di Cosimo Pagnani che, dopo aver ucciso la moglie Maria, scrisse su Facebook “Sei morta troia”.

2. L’incitamento all’odio razziale

Non ci sono etnie che “meritano” di essere insultate, sui social o fuori dal Web. Perciò, ogni discorso che suona come “è negro, somiglia a una scimmia”, oppure le battute che insinuano che tutti gli albanesi siano ladri, i commenti che “invitano” a dare fuoco agli zingari, sono chiaramente esempi di hate speech in cui molti di noi cadono, per ignoranza o profondamente convinti delle proprie parole. Un perfetto esempio? Mario Borghezio, che, riferendosi alla Kyenge, nel 2013 disse: “La parola ‘negra’ in Italia non si può dire ma solo pensare. […] Mi sembra una brava casalinga, non un ministro del governo. […] Gli africani sono africani, appartengono a un’etnia molto diversa dalla nostra. Non hanno prodotto grandi geni, basta consultare l’enciclopedia di Topolino. Kyenge fa il medico, gli abbiamo anche dato un posto in una Asl che è stato tolto a qualche bravo medico italiano’.

3. L’hate speech a sfondo sessuale

Chiaro che anche il discorso sull’identità di genere configuri spesso e volentieri il profilo di hate speech. Tutti i discorsi, talvolta innocui fatti fra amici, che utilizzano espressioni come “Sembri un fro**o”, “Sei una checca”, pur se non fatti con odio possono comunque essere interpretati come hate speech. Fino ad arrivare all’exploit dell’ex sindaco di Treviso, Giancarlo Gentilini, che al collega sindaco di Verona disse che, qualora avesse autorizzato il Gay Pride “gli sparo, ci vuole una purga“.

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