Le visualizzazioni dell’odio: come crescere facile sui social

Le visualizzazioni dell’odio sono tristemente qui per restare, a fare la voce grossa del sistema patriarcale capitalista e suprematista, snudando però la fragilità di questo sistema. Che trema al solo sentirsi togliere il potere di dire una parola discriminatoria.

Chiedersi il perché delle cose fa parte del mio mestiere. Perciò, non ho potuto che soffermarmi sul potere di un certo tipo di narrativa.

Sono mesi che aprendo Linkiesta trovo sempre e solo un nome a firma dell’articolo più letto. Quando va male, occupa la terza e la seconda posizione insieme. Si tratta della rubrica al vetriolo di Soncini, che tra un acciocché è un commento inappropriato riesce a dire quello che la gente lamenta di non poter più dire.

Anzi, forte di quel pubblico di riferimento, nutre l’idea di un giornalismo libero, quando, a conti fatti, si tratta sempre della solita solfa, cattiveria inzaccherata con un buon italiano per scrivere e riscrivere quello che purtroppo, quasi tutte le persone dicono. Le stesse aggressioni verbali del pubblico lettore, farcite di finta sagacia, messe nero su una pagina digitale, fanno parecchie visualizzazioni. Perché?

La rabbia vende

Per lo stesso motivo per cui sui social vende di più una storia rabbiosa contro un nome e un cognome – pardon, un nome del profilo – piuttosto che un ragionamento che usi la questione come caso, senza aggressività. Il sentimento che attiva una maggiore risposta dagli utenti, siano essi lettori o scrollatori di social, è la rabbia. La rabbia fa condividere, obiettare, mettere like e inviare il link di un articolo su Whatsapp. Attivare una risposta emotiva è la base di funzionamento dei social.

Prima ancora della conversione e dell’assorbimento dell’utenza, l’educazione sentimentale digitale ha modificato le nostre modalità espressive e non solo nel mondo di pixel e algoritmi. Siamo stati abituati a rispondere prima con le emozioni e poi con la ragione, lasciando che l’indignazione fluisse dai nostri pollici per produrre reazioni distruttive, che spesso nemmeno esprimono o sfogano la rabbia.

La rabbia in bottiglia

Anzi, mi verrebbe da dire che proprio in questa discrasia espressiva sta un proposito, un’incazzatura imbottigliata miete più vittime – produce più commenti – di una rabbia ben espressa. Si genera perciò un paradosso per cui siamo furenti e impossibilitati a comunicarlo in maniera funzionale, aspettandoci che la rabbia venga colta da un altro utente contrario alla nostra opinione e passando il tempo a rimbalzarci commenti furbi o enfatici.

Mi è capitato di notare amic* rapiti da questo scambio a ciclo continuo dalla mattina alla sera, persi in una rabbia che non poteva che aumentare al moltiplicarsi degli scambi. La rabbia non è una novità. I populismi ci campano da secoli ormai, aizzando folle verso qualcosa, incanalando la loro rabbia verso un comportamento di voto. Non cambia poi molto in quel dì dell’Instagram o degli articoli sulle persone che abitano il social.

La rabbia social

Anzi, questi ultimi sono la chiave di volta in un mondo incapace di parlare di sé stesso. Pensare che ci si possano ricamare intere carriere, spaventa e impoverisce il nostro sistema sociale attribuendo un valore sempre più preponderante allo spazio digitale. Gli articoli sulle persone che stanno sui social sono l’equivalente dei pezzi sul palinsesto delle reti Mediaset: intrattenimento fine a sé stesso. E per amor di correttezza, non è che non ne si debba parlare, anzi. Ma come per tutte le cose il come e il perché fanno la loro parte.

Ad esempio, per restare in tema, recuperare la differenza tra aggressione e reazione sarebbe utile a comprendere meglio ciò che leggiamo, permettendo alla critica di raggiungere uno scopo. Una persona che reagisce ad una discriminazione verbale o scritta, sta semplicemente agendo in conseguenza di un’aggressione. Chi invece usa questa reazione per produrre una critica paragonando l’azione e la sua conseguenza appiattisce i livelli permettendo alla discriminazione di prosperare, se non, addirittura, di essere difesa. E quindi, si apre un buco nero comunicativo, dove chi non ha mai ascoltato si accaparra la propria indifferenza come fosse un diritto. Nutrendo il portafoglio di qualcun altro che ha trovato nelle querelle o nel tiro al piattello la solita fonte inesauribile – o perlomeno stabile visti i tempi che corrono – di reddito.

La rabbia sistemica

Le visualizzazioni dell’odio sono le maggiori produttrici di seguito dopo gattini e ricette, possono trasformare un seguito da poche centinaia di follower in un novero di migliaia di persone, non senza effetti collaterali. Chi sta dall’altra parte, soprattutto quando si parla di attivist* o persone che hanno espresso indignazione rispetto a qualcosa di socialmente e individualmente problematico, riceve una valanga di odio. Un odio che si dirama, raggiunge la vita privata e la intasa, s’infiltra dal cellulare nella psiche, nelle relazioni e nello spazio analogico, fin anche nel lavoro.

Ed è distruttivo, perché il più delle volte, le tempeste di merda sono solo questo : ostracismo digitale.

Si lasciano dietro solo il tempo che trovano.

Dunque, che dire di quella neonata ma fiorente industria che le ha istituzionalizzate in articoli e profili? Semplicemente, che siamo di fronte all’ennesimo riflesso codificato di ciò che già c’era, odio in formato tascabile, venduto al miglior prezzo. Perché alla fine della giornata, in quanti aprono schermi e bocche per dire qualcosa che realmente possa fare del bene? Quant* corrono il rischio di andare contro un sistema ben rodato sapendo quanti e quali saranno i costi?

Potrei dire poch*, ma sono molt*. E per fortuna. Alcun* di loro si rintracciano nell’odio scritto di Soncini, altr* tra i rimbalzi di tweet, ma la maggior parte passa non vista tra le maglie dell’odio dal basso. Nelle piazze di pietra come in quelle digitali, l’azione contro il sistema delle oppressioni resiste e si fa forza, cercando di tenersi stretto e fare rete.

Le visualizzazioni dell’odio sono tristemente qui per restare, a fare la voce grossa del sistema patriarcale capitalista e suprematista, snudando però la fragilità di questo sistema. Che trema al solo sentirsi togliere il potere di dire una parola discriminatoria. Perché lo sa, anche il sistema e chi ne beneficia lo sanno, che tolto l’odio non c’è più niente da vendere.

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