Tutti (o quasi) sappiamo cosa è la misoginia e, purtroppo, abbiamo familiarità con i suoi effetti sulla società. Meno conosciuto, invece, è il suo corrispettivo maschile, la misandria.

Nell’estate del 2020 se ne è parlato molto dopo la pubblicazione del pamphlet provocatorio Odio gli uomini della francese Pauline Harmange, ma fuori dal dizionario degli addetti ai lavori, quello dell’odio contro gli uomini rimane un termine – e un fenomeno – dai tratti ancora poco definiti.

Misandria: cosa significa?

«Misandria» deriva dall’unione di due parole di origine greca: miso- cioè disprezzo, e –andria, cioè maschio. Detto in parole semplici, si tratta dell’avversione per il genere maschile. Un’avversione “morbosa”, dice il dizionario Treccani. Odio, diremmo noi.

In genere il termine viene utilizzato per riferirsi alle “donne che odiano gli uomini”, ma come una donna può essere misogina, così non è detto che la misandria sia una prerogativa del solo genere femminile.

Come ogni forma d’odio, anche la misandria è pericolosa, perché può sfociare in varie forme di violenza psicologica o fisica: esclusione sociale, discriminazione sessuale, ostilità, ginocentrismo, insulti, incitamento all’odio e violenza, demonizzazione e oggettificazione sessuale.

Non stiamo parlando, in altre parole, di quelle frasi di circostanza pronunciate dopo una rottura sentimentale o una discussione troppo accesa, come: «gli uomini sono tutti delle merde, li odio».

Non si tratta di banale retorica autoconsolatoria ma di parole, gesti, offese fisiche e, talvolta, di azioni violente che finiscono al centro delle cronache. Con statistiche di gran lunga inferiori a quelle della misoginia – la cui parabola dalle forme più subdole di violenza al femminicidio abbiamo tutte ben presente – ma che comunque non devono essere sottovalutate.

La misandria in psicologia

Ma cosa determina tutto quest’odio? Individuare le cause della misandria non è facile: il termine, infatti, non è presente in nessun manuale dei disordini mentali e non è quindi riconosciuta come una patologia psichiatrica. Gli ambiti in cui è chiamato in causa sono quindi quelli della sociologia, dell’antropologia, della psichiatria e della psicologia.

L’origine è probabilmente da individuare nello stress post-traumatico correlato a episodi gravi occorsi durante l’infanzia, come abusi sessuali o violenze in cui l’aggressore era un familiare, spesso tenuti segreti fin quando si è diventati adulti. Certe volte l’episodio incriminato è stato rimosso non per un effettivo bisogno di mantenere il segreto, ma semplicemente è accaduto qualcosa di così spaventoso che il cervello lo ha nascosto per molto tempo, sfociando nella misandria.

Secondo Psicologia e Benessere, inoltre,

un’altra ipotesi sulle cause è quella che fa risalire il problema a un rapporto disfunzionale con la figura paterna. Meno probabile, anche se qualcuno lo ipotizza, che la causa dell’avversione sia dovuta alle disuguaglianze sociali fra i due sessi.

Misandria e misoginia

Anche il termine misoginia deriva dal greco: in questo caso, da μισέω -miso, “odiare” e γυνή gynḕ, “donna”. Come la sua versione maschile, il termine indica un sentimento di odio o avversione, in questo caso nei confronti delle donne come gruppo sociale – portato avanti indifferentemente da uomini o altre donne – che può tradursi in livore e/o azioni violente.

Diversamente da quanto accade per maschilismo e femminismo – che non indicano due versioni diverse di uno stesso fenomeno a generi invertiti – o per patriarcato e matriarcato, che indicano due sistemi sociali profondamente diversi, misandria e misoginia sono due facce della stessa medaglia.

Sono due versioni opposte ma in un certo senso complementari di un odio che porta a vedere qualcosa di intrinsecamente sbagliato e corrotto nel genere opposto e, per questo, a mettere in atto una serie di azioni discriminatorie con livelli di gravità molto variabili ma potenzialmente pericolosi.

Misandria e femminismo

Quello delle femministe che odiano gli uomini è uno degli stereotipi più duri a morire. Secondo questa visione, il nemico del femminismo non sarebbe il patriarcato – un sistema sociale che nuoce a tutti, agli uomini come alle donne – ma i maschi, vituperati e odiati da un’orda impazzita di virago pronte – come nel romanzo Ragazze Elettriche di Alderman – a sottometterli a suon di violenza.

Se è vero che esistono anche delle femministe misandriche – come esistono delle femministe transfobiche o delle femministe suprematiste bianche – ad accusare le donne di misandria sono però quasi sempre quegli uomini che vedono in queste attiviste delle usurpatrici del loro naturale diritto a dominare il mondo.

Non tutte le femministe sono Valerie Solanas, la radfem che tentò di uccidere Andy Warhol e che negli anni ‘70 diede alle stampe Skum Manifesto, in cui teorizzava l’inferiorità biologica degli uomini, la loro natura intrinsecamente violenta e la necessità di un “genericidio” per consentire l’emergere di un “nuovo Übermensch Womon”. Anzi. Le sue tesi estreme erano lontanissime già negli anni ‘70 dalle idee che prevalevano nella maggior parte dei gruppi di donne in tutto il paese.

Chi continua a muovere questa accusa all’intero movimento femminista dimostra solo di non sapere nemmeno cosa sia, il femminismo. La storia dell’emancipazione femminile, infatti, ci ricorda che la lotta non è mai stata per il ribaltamento del dominio e sull’imposizione di un genere sull’altro, ma per l’uguaglianza e la parità. E che, come ha detto la scrittrice Otegha Uwagba, «Gli uomini dovrebbero essere contenti che le donne vogliano parità e non vendetta».

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