"Non chiamiamolo 'omicidio di identità'. Lo dico da vittima" INTERVISTA A LUCIA ANNIBALI

"Non mi piace il termine 'omicidio di identità'. L'identità è qualcosa che ti appartiene". "Dobbiamo imparare a leggere le storie di violenza, ascoltare le donne". Cosa ci ha detto Lucia Annibali, sfregiata con l'acido dall'ex fidanzato nel 2013, oggi deputata impegnata sul fronte della violenza di genere.

Era il 16 aprile del 2013 quando due uomini aggredivano Lucia Annibali con l’acido, su ordine dell’ex fidanzato della donna, Luca Varani, in seguito condannato a 20 anni di reclusione per tentato omicidio e stalking.

Quello dell’avvocata di Urbino è stato forse il primo caso salito alla ribalta della cronaca italiana di persona sfregiata con l’acido da un ex partner, mentre negli anni a venire ci saranno poi storie come quella di Gessica Notaro o William Pezzulo; Annibali ha fatto della sua drammatica storia l’occasione per impegnarsi costantemente contro la violenza di genere, anche nel suo ruolo di parlamentare, e attraverso il libro autobiografico, scritto a quattro mani con Giusi Fasano, Io ci sono. La mia storia di “non” amore, diventato poi anche un film per la tv interpretato da Cristiana Capotondi.

Io ci sono. La mia storia di «non» amore

Io ci sono. La mia storia di «non» amore

L'avvocata Lucia Annibali, oggi deputata, racconta con Giusi Fasano la sua storia, dall'aggressione subita il 16 aprile 2013 per mano di due sicari mandati dall'ex fidanzato Luca Varani fino all'impegno contro la violenza di genere di oggi.
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La deputata di Italia Viva ha accettato di fare una chiacchierata con noi, per parlare di violenza di genere nelle sue varie forme, ma anche per raccontarci le sue proposte più recenti e le sue idee su come poter arginare una piaga che ogni anno, nel nostro Paese, fa centinaia di vittime, che spesso passano sotto silenzio.

Lei è stata probabilmente la prima vittima “riconosciuta” di omicidio di identità, e negli anni seguenti abbiamo conosciuto storie come quella di Gessica Notaro o di William Pezzulo, ma nonostante i tanti casi di cronaca ci sono voluti anni prima di arrivare a una riforma del Codice Penale, con l’inserimento dell’articolo 583- quinquies, grazie alla legge n 69 del 19 luglio 2019, che l’ha introdotto come fattispecie autonoma di reato. Perché ci è voluto così tanto per riuscire a regolamentare un argomento così importante?

Diciamo che la normativa rispetto ai reati di violenza di genere è sempre in aggiornamento, sicuramente anche i casi di cronaca, che sono tanti, indicano alle istituzioni la strada da percorrere; ma quello che manca, sul piano della prevenzione, è il riuscire ad arrivare il prima possibile, essere in grado di leggere correttamente queste storie.

Il mio caso è stato eclatante per le modalità e il contesto, ci trovavamo in una città, Pesaro, con protagonisti che erano bene inseriti sul piano del lavoro, rispetto al contesto sociale, la modalità di ricorrere all’acidificazione sicuramente non appartiene alla nostra cultura, anche se in realtà riuscire a manipolare sostanze acide è piuttosto semplice; i prodotti che abbiamo in casa sono gli stessi usati per la mia aggressione, ad esempio.

Se devo essere sincera io non amo molto la dicitura ‘omicidio di identità’, non è una cosa che ho sostenuto sul piano culturale oltre che giuridico-parlamentare: non la condivido in quanto donna che in conseguenza di questo attacco ha subito lesioni, io sono una persona ustionata, quindi so perfettamente qual è lo spirito, qual è la lotta, il sacrificio, sul piano sociale, sanitario e anche personale di chi, da ustionato, cerca di ricostruire la propria esistenza. L’identità è qualcosa che ti appartiene fortemente, che fa parte del tuo percorso di ripresa, nel modo in cui ti poni con gli altri, con te stessa. Posso certamente capire l’esigenza di mettere l’accento sulla modalità di aggressione che rischia di diventare, non dico molto comune, ma quantomeno purtroppo molto imitata. Come, del resto, non si può negare che, sul piano normativo, le norme esistessero già in precedenza: le lesioni che hanno riguardato me erano già punite, quindi non eravamo del tutto sprovvisti di strumenti normativi, e in ogni caso penso che la violenza sulle donne non debba solo risolversi sul piano della repressione, ma attraverso diversi passaggi”.

Nel 2019 lei ha espresso alcune perplessità sul Codice rosso, sostenendone alcune criticità. Alla luce delle vittime registrate in Italia solo negli ultimi due anni, oltre 70 nel 2021 e già 33 in soli otto mesi del 2022, sembra difficile non darle ragione. Che cosa nel meccanismo non funziona, al di là del problema socioculturale già di per sé rilevante?

Il Codice rosso ha sicuramente segnato dei punti importanti, degli avanzamenti sul piano normativa, il suo obiettivo principale è quello di accelerare la presa in carico della denuncia, e questo è positivo. Io, ad esempio, avevo già messo in luce il tema dei tre giorni [secondo il Codice rosso il magistrato ha l’obbligo di sentire la donna entro tre giorni dall’avvio del procedimento, per tutti i casi di violenza domestica e di genere, ndr.], accattivante sul piano della comunicazione, ma non è detto che i tre giorni siano effettivamente funzionali rispetto a un rischio di vittimizzazione secondaria, del resto questo aspetto era già stato messo in luce dalle associazioni che si occupano di questi temi. 

Bisogna tener conto dei tempi delle indagini, di ciò che è funzionale rispetto alla protezione della donna che denuncia; inoltre il provvedimento non stanziava risorse, era a invarianza finanziaria, mentre noi sappiamo per esperienza che le risorse sono fondamentali: senza ogni intervento politico è molto limitato, e non si può pensare che soli interventi normativi possano interrompere questo fenomeno che continua a prodursi. Ogni giorno ci sono storie drammatiche di donne e dei loro figli, e il Codice rosso è stato solo un passaggio che si è unito ad altri precedenti, come la ratifica della Convenzione di Istanbul, ma pensiamo che c’è ancora pendente un decreto legge fermo in Commissione giustizia in Senato [il disegno di legge presentato da Marta Cartabia, Luciana Lamorgese ed Elena Bonetti, ndr.], che aggiungerebbe altri elementi tesi proprio a colmare i vuoti del Codice rosso, cercando di porre l’attenzione sulla prevenzione per riuscire a intervenire in tempo. 

Nel momento della denuncia infatti si ha bisogno di una rete di interlocutori informati, penso anche alla magistratura, che deve saper trattare queste donne, ma soprattutto inquadrare i soggetti di cui hanno paura, al di là, ovviamente, del processo penale, che fornisce le sue garanzie. Gli elementi di cui dobbiamo occuparci sono tanti, ma soprattutto dobbiamo conoscere le dinamiche che caratterizzano le storie della violenza, perché altrimenti non si è capaci di leggere i segnali, le dichiarazioni delle donne che raccontano le loro storie”.

Fra le sue battaglie anche quella sul reddito di libertà. La definirebbe una battaglia vinta completamente?

La definirei una battaglia vinta perché oggi il reddito di libertà esiste, è entrato in Gazzetta Ufficiale, ed è stato finanziato e rifinanziato. Sono stati stanziati sinora 9 milioni di euro, so che non sono sufficienti, ma da qualche parte bisogna pur cominciare, bisogna seminare per raccogliere, e poi è importante che gli strumenti che si creano siano monitorati. Il reddito di libertà nasce dalla consapevolezza dei bisogni delle donne, e quindi dalla necessità non solo di punire l’autore del reato, ma di dare alle donne un sostegno di libertà, autonomia abitativa, economica, una donna deve poter ricostruire la propria libertà, per cui concentriamoci sulle donne, su quello che a loro serve.

La violenza economica è una forma poco esplorata ma importante di violenza, il ricatto del denaro agisce in maniera incredibile sulla libertà di una donna.

Il reddito di libertà parte da esperienze regionali ed è strutturato in modo da poter essere nazionale, se ne può fruire attraverso l’INPS, ed è senz’altro un modo diverso di affrontare il tema, non basato sul creare nuovi reati, quanto sul restituire libertà, appunto, alle vittime.

Esplorare la violenza economica è fondamentale, al di là dei simbolismi sulla violenza di genere, dei vari occhi neri o scarpette rosse: non parliamo di una misura assistenziale, ma di una possibilità per poter disporre di risorse così da intraprendere un proprio percorso di emancipazione. Poi, ovviamente, deve essere perfezionato, ma già la sua esistenza è positiva, perché, come detto, introduce un aspetto diverso rispetto al tema della violenza sulle donne.

Quanto incide il linguaggio dei media, e anche di una certa parte di politica, nella percezione errata della violenza di genere e nel suo radicarsi sempre più all’interno della società?

Questo linguaggio, sicuramente non corretto, rispetto ai racconti delle storie di violenza incide molto su un piano culturale, nel senso che in qualche modo affievolisce le responsabilità rispetto all’azione commessa, e anche la sua gravità. Noi parliamo di reati, e quindi è importante stabilire che si tratta di reati, però questo linguaggio tende invece a spostare l’attenzione soprattutto sulla donna, e di certo non la aiuta. Ogni vittima ha bisogno di riappacificarsi con se stessa, deve capire che non ha responsabilità, mentre questa confusione nel linguaggio non aiuta a un approccio libero e consapevole.

Leggendo molti titoli di giornale troviamo spesso frasi o discorsi che in qualche modo tendono a ‘scaricare’ una quota di responsabilità sulle donne, ma questo è totalmente errato: nessuna donna vuole essere maltrattata.

Io stessa avevo detto ‘Basta’, ed è successo quel che è successo. Le donne non vogliono rimanere in quella situazione, per questo dobbiamo aiutarle a compiere questo percorso di rappacificazione con se stesse, perché provano vergogna, stigma, e noi dobbiamo alleggerirle. Ci vuole più impegno, occorre sentire di più la responsabilità di queste storie e abbandonare gli stereotipi che accompagnano la violenza sulle donne”.

Come deputata da sempre si è mostrata molto vicina al tema della violenza di genere; oggi quali sono le sue proposte più recenti e le sue idee?

“L’impegno sul tema deve essere costante, ma anche giusto ed equilibrato; a me non piace questo approccio in cui si ricordano nomi, cognomi e modalità, sono dell’idea di impegnarsi con misure concrete, sicuramente occorre cercare di fare attenzione, implementare il reddito di libertà, monitorare, e agire sul piano culturale, altra cosa secondo me importantissima, con una formazione seria sui giovani. Io, ad esempio, da anni faccio incontri con ex detenuti e ragazzi delle scuole, parlando di legalità e di violenza, di riscatto, tutto fa informazione.

Sul piano normativo, quando si è discussa la legge delega sul Codice Penale, ho fatto introdurre l’emendamento dell’arresto in flagranza anche nei casi in cui sia violato il provvedimento di allontanamento. Non possiamo però dimenticare la necessità di una riorganizzazione sociale ed economica del Paese, visto che la pandemia ha messo in luce quanto le più penalizzate, sotto questi punti di vista, siano state proprio le donne. 

Io non inventerei nuovi reati, ma preferirei implementare le misure di protezione e prevenzione già esistenti, e gli interventi previsti nel disegno di legge cui ho già accennato servirebbero proprio a colmare il vuoti tra la richiesta d’aiuto e l’effettività del provvedimento stesso.

Dobbiamo imparare a leggere le storie di violenza, a riconoscerne gli elementi, riuscire a individuare la personalità dei soggetti violenti, renderci conto che ci troviamo di fronte a un pericolo potenziale. Spesso chi è violento non ha niente da perdere, quindi dobbiamo fermarci veramente sulle storie delle donne, e smetterla di pensare che una donna possa uscire facilmente da una situazione di pericolo. Anzi, molto probabilmente proprio il suo tentennare è spesso un segnale del fatto che ci troviamo di fronte a una situazione emergenziale. Non possiamo lasciare le donne da sole, dobbiamo immedesimarci nel loro dolore così profondo“.

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