Marty Goddard, la donna che ha inventato il kit anti-stupro

Alla scoperta di Marty Goddard, l'attivista di Chicago che ha inventato il rape kit e ha rivoluzionato il modo in cui venivano raccolte le prove delle vittime di violenza sessuale negli anni '70 del '900. Un vero e proprio strumento forense che ha avuto un impatto significativo a livello medico e legale, e che è giunto fino ai giorni nostri. Vediamone i dettagli.

“Dietro a ogni grande uomo di successo, c’è sempre una grande donna.” O meglio: nella maggior parte degli ambiti, soprattutto nei secoli e decenni scorsi, l’uomo si prendeva tutto il merito, senza riconoscere la donna che era davvero artefice di un determinato successo, e restava, quindi, “dietro”, nell’ombra. Come nel caso di Marty Goddard, attivista di Chicago che, negli anni ’70 del ‘900, rivoluzionò completamente il modo in cui le forze dell’ordine raccolgono le prove di violenza sessuale, inventando il cosiddetto “rape kit”.

Vediamo di che cosa si tratta nel dettaglio.

Chi era Marty Goddard e qual è stata la sua invenzione

Marty Goddard nacque nel 1941 a Chicago, dove, negli anni ’70, lavorò come attivista occupandosi della tutela delle donne vittime di violenza sessuale. Proprio in questo contesto, Goddard si accorse ben presto che, con una stima di migliaia di donne violentate all’anno, molto spesso la polizia non credeva alle storie delle vittime. Soprattutto, si rese conto di come il sistema legale e medico trattasse i loro casi in maniera inadeguata e di come le prove fossero raccolte in modo impreciso o non fossero raccolte affatto, compromettendo, così, la possibilità di ottenere giustizia.

Per tale ragione, l’attivista decise di dedicare la sua vita a una missione: aiutare le donne vittime di violenza sessuale creando un sistema standardizzato per la raccolta delle prove forensi, al fine di aumentare la possibilità di profilare e, dunque, condannare gli stupratori. L’intuizione di Marty Goddard, infatti, fu tanto semplice quanto rivoluzionaria: se le prove di violenza sessuale fossero state raccolte con un metodo uniforme, strutturato e sistematico, le probabilità di successo, in sede giudiziaria, sarebbero state drasticamente più alte.

Nacque, perciò, il “rape kit”, ossia il primo kit standardizzato per la raccolta delle prove di violenza sessuale. Nel 1974, Goddard presentò l’idea alla Chicago Police Department Crime Lab e, nello specifico, a Louis R. Vitullo, il capo del laboratorio analisi, che inizialmente la respinse urlandole contro. Peccato che lo stesso Vitullo sviluppò, poco dopo, un kit simile (il “Vitullo Evidence Collection Kit For Sexual Assault Examination”), prendendosi interamente il merito dell’invenzione e ignorando del tutto il contributo e l’impegno della sua vera ideatrice, Marty Goddard.

Il ‘rape alarm’ e la storia del Kit di autodifesa femminile

Nonostante gli ostacoli, Goddard riuscì a diffondere il suo rape kit grazie alla fondazione della Citizens Committee for Victim Assistance, per il quale una gran parte del finanziamento iniziale provenne dalla Playboy Foundation, grazie al supporto dell’imprenditrice Christie Hefner.

Ma in cosa consisteva, esattamente, il rape kit? Il kit ideato dall’attivista di Chicago conteneva tamponi sterili, contenitori etichettati, istruzioni dettagliate e moduli standardizzati: ogni elemento, appunto, era stato pensato per garantire la totale integrità della catena di custodia delle prove, che costituiva un aspetto cruciale per la loro ammissibilità in tribunale. I primi rape kit furono, quindi, distribuiti negli ospedali a partire dal 1978, segnando l’inizio di una nuova epoca nella lotta contro la violenza sessuale.

Contestualmente, si diffusero anche altri sistemi di prevenzione e autodifesa, come il “rape alarm”: un dispositivo personale creato per allertare le persone nelle vicinanze in caso di violenza. Si trattava, infatti, di un piccolo oggetto elettronico che, una volta attivato, era in grado di emettere un allarme acustico molto forte, consentendo, così, alla vittima di spaventare e confondere l’aggressore, iniziare a scappare e attirare l’attenzione dei passanti e/o dei vicini.

Gruppi femministi, collettivi per le donne e movimenti di autodifesa femminile, inoltre, iniziarono anche a promuovere, negli anni ’70 e ’80, fischietti, spray urticanti, manuali, opuscoli e newsletter con informazioni pratiche e tecniche di difesa personale, oggetti contundenti (come portachiavi a punta) e istruzioni legali per capire che cosa fare in caso di aggressione sessuale.

Il contesto storico: femminismo anni ’70 e attivismo urbano

Il rape kit, il rape alarm e tutti gli strumenti di consapevolezza e autodifesa personale trovarono terreno fertile nel contesto storico in cui presero forma, ossia quello animato dal movimento femminista degli anni ’70, figlio del fermento politico e sociale già avviato nel decennio precedente e particolarmente attento alla rivendicazione dell’autonomia delle donne e della sicurezza di queste ultime negli spazi pubblici, molti dei quali caratterizzati da un aumento vertiginoso della criminalità e da un abbandono delle forze dell’ordine.

Il femminismo degli anni ’70, tra le altre istanze, ha, poi, messo al centro anche un tema fino ad allora considerato tabù: la violenza domestica e sessuale. Per tale ragione, le attiviste non si limitarono a denunciare le ingiustizie, la normalizzazione delle violenze e delle molestie, la mancanza di supporto istituzionale per le vittime e il victim blaming, ma cercarono anche di corroborare un certo attivismo urbano “dal basso” e di dare vita a delle azioni dirette e concrete in collaborazione, ove possibile, con le istituzioni.

Proprio come fece Marty Goddard, la quale, con l’invenzione del suo kit per la raccolta delle prove di aggressione, contribuì notevolmente a trasporre il tema della violenza sessuale da una dimensione privata e individuale a una pubblica, politica e sociale, agendo anch’essa dal basso e con pragmatismo e offrendo soluzioni tangibili a un problema reale e capillare.

Al contempo, presero forma anche gruppi di autodifesa femminili di quartiere, movimenti autorganizzati (come i “safe spaces” e le reti di supporto tra donne), eventi di sensibilizzazione, mappe dei luoghi più pericolosi delle diverse città e pattugliamenti notturni femministi.

L’eredità di Marty Goddard nella prevenzione moderna

L’eco di Marty Goddard è andata ben oltre il contesto a lei contemporaneo, giungendo fino ai giorni nostri. Il rape kit, infatti, ha rivoluzionato l’approccio con cui le autorità trattano i casi di stupro: se prima del suo avvento le prove venivano raccolte in maniera casuale, imprecisa o mancante, nei decenni successivi il kit ideato dall’attivista di Chicago si è trasformato in un vero e proprio strumento forense, riconosciuto a livello internazionale e adottato da ospedali, laboratori e forze dell’ordine. Esso, appunto, consente una raccolta sistematica e rispettosa del DNA, peli, fluidi corporei, campioni di sangue e altre tracce fisiche, permettendo una profilazione più accurata degli aggressori.

Il rape kit ha, poi, avuto un impatto significativo anche sul sistema giudiziario correlato ai casi di violenza sessuale, migliorando, come accennato, le indagini e i tassi di identificazione, aprendo la strada ai “cold cases” (ossia i casi irrisolti, grazie alla conservazione a lungo termine del DNA) e contribuendo alla creazione e all’incremento delle banche dati del DNA, al fine di prevenire eventuali recidive.

In ultimo, ma non per importanza, l’invenzione di Marty Goddard ha posto la vittima di aggressione al centro del discorso, sottolineandone l’importanza della dignità, della privacy e del consenso durante la raccolta delle prove e dando una forte spinta alla formazione di professionisti preparati e sensibili (come i SANE – Sexual Assault Nurse Examiners, figure ancora oggi fondamentali nella cura post-violenza sessuale).

Interviste e testimonianze: il prevention kit oggi

Marty Goddard non ottenne notevoli riconoscimenti nel corso della sua vita (conclusasi nel 2015), ma il suo lavoro influenzò profondamente quello delle persone a lei vicine e dei professionisti del settore che guardarono alla sua invenzione nei decenni successivi, migliorando sempre di più il proprio approccio ai casi di violenza sessuale e ampliando il concetto stesso di rape kit.

Oggi, infatti, quest’ultimo si è evoluto e ha preso i contorni di un “prevention kit”, fatto di:

  • strumenti fisici, come spray legale, allarme portatile e torcia;
  • strumenti digitali, come chatbot, bottoni anti-aggressione integrati negli smartwatch, mappe e percorsi sicuri in città e app per la sicurezza personale, con GPS, SOS automatici e connessioni a contatti di emergenza;
  • materiali informativi, in relazione ai percorsi di denuncia e ai diritti legali.

Ciononostante, sono ancora molteplici i risultati derivanti dall’utilizzo del rape kit in tempi non recenti. Wendy, per esempio, ha subito un’aggressione nel 1992 e, dopo due decenni di inattività, il suo rape kit fu finalmente testato nel 2012, portando all’identificazione del colpevole. L’uomo era già in carcere per crimini simili, ma, grazie al suo processo, Wendy ha ottenuto giustizia e ha testimoniato in tribunale, avendo, così, la possibilità di concludere un capitolo doloroso della sua vita. Come ha dichiarato lei stessa su RAINN nel 2012:

È davvero uno shock ricevere una telefonata dopo 20 anni, all’improvviso, e sapere che il mio rape kit ha trovato una corrispondenza.

La stessa cosa è successa anche a Natasha Simone Alexenko, aggredita sessualmente nel 1993 e il cui rape kit non fu testato per quasi un decennio, perché facente parte di un arretrato di circa 17.000 kit per lo stupro non testati a New York City. Fortunatamente, poco prima che scadesse il termine per la prescrizione, il suo kit fu testato e portò all’identificazione e all’arresto del suo aggressore nel 2007.

Ascoltare le esperienze di altre vittime sopravvissute ha, tuttavia, spinto Alexenko a lasciare il suo incarico in qualità di direttrice del Long Island Maritime Museum, per dedicarsi a tempo pieno all’attività di advocacy. Nel 2011, ha, dunque, fondato il Natasha’s Justice Project, un’organizzazione no-profit dedicata a promuovere test tempestivi sui kit anti-stupro e a sostenere i sopravvissuti alle aggressioni sessuali.

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