"Non sono fortunata perché sopravvissuta a una violenza sessuale" - INTERVISTA

Io non sono ciò che mi è successo. Di una cosa sono certa: le mie alternative di vita, in quanto donna, non sono l'essere o no uccisa e/o l'essere o no penetrata, quindi no, non sono 'fortunata' e non permetterò più a nessuno di dirmelo. Ho diritto di vivere e di scegliere, sempre e comunque.

Marzia ce lo dice subito, rispondendo alla nostra mail:

Rispondo a distanza di giorni, perché, seppure siano passati sette anni, ho dovuto rivivere momenti e sensazioni che credevo attenuate, invece no. Per questo motivo parlerò al presente, queste esperienze ti rimangono addosso come una seconda pelle.

Siamo state colpite dal commento lasciato sotto un nostro post, questo, della nostra contributor Carlotta Vagnoli.

Le parole sono importanti e possono fare molto male, soprattutto quando infieriscono su chi ha già sofferto molto....

Pubblicato da ROBA DA DONNE su Giovedì 25 marzo 2021

E così, quando abbiamo contattata Marzia, ha accettato di metterci la faccia, ma non solo: ha accettato di percorrere, a ritroso, l’incubo che ha vissuto, un’aggressione perpetrata mentre si trovava a casa sua, nel suo letto, da un uomo che lei poi ha capito di conoscere bene.

L’ha ricordata così, in maniera molto lucida e sorprendentemente razionale, spiegando però di essere giunta a un tale grado di elaborazione grazie al supporto psicoterapeutico, “fondamentale – dice – per non identificarsi a vita con una situazione subita per scelta altrui. Sottolineo scelta, perché null’altro può giustificare la violenza che un essere umano opera su un altro essere umano”.

La mattina del 5 aprile 2014 alle ore 2.00 circa mi trovo nella mia stanza. Il mio è un letto a una piazza, dormo con i piedi rivolti alla porta di entrata alla quale si accede tramite una scala esterna. Vivo in una casa su due livelli al centro storico di un paese di tremila anime. Ci sono due accessi, uno al piano terra e uno al piano superiore, i due piani sono collegati internamente da una scala a chiocciola. La casa è piccola, e per tale motivo in famiglia abbiamo organizzato una zona notte superiore per me e mia figlia e una inferiore per mia madre ipovedente. Questa premessa è importante per far capire che la scelta dell’entrata dell’aggressore non è casuale, così come la scelta del giorno in cui mia figlia si trova in città dal padre a trascorrere il fine settimana.

Segni che indicano un’attenta osservazione delle mie abitudini da tempo.
Dormo con il televisore acceso, come sempre, ma questo non impedisce il mio risveglio improvviso al rumore dell’apertura della porta proprio di fronte a me. C’è una sagoma scura sull’uscio, ha metà volto coperto e impugna con la mano destra una pistola. Bastano quei pochi secondi in cui sono ancora in dormiveglia, che me lo ritrovo addosso a cavalcioni tra torace e addome.

È pesante, mi toglie il fiato, mi punta l’arma alla tempia sinistra, si abbassa, si avvicina al mio orecchio e mi sussurra frasi di amore, mi dice che mi sogna tutte le notti, mi consiglia di stare tranquilla e intanto con la mano libera si tocca, poi mi tocca, mi alza la camicia da notte. Io urlo, urlo la parola ‘mamma’, perché è così istintivo chiamare mamma, lui mi schiaccia naso e bocca con la mano libera. Soffoco, capisco ciò che vuole fare, no, io non voglio e l’adrenalina sale. L’ho riconosciuto dalla voce, è un vicino di casa, abita nella mia stessa via. Non è un soggetto raccomandabile, ha varie dipendenze, vari problemi sociali e legati alla legge. È forte, robusto, rischio, ma voglio disarmarlo. Continuo a urlare aiuto, ma le grida non vengono ancora accolte da mia madre anziana e invalida.

Con una tecnica appresa in anni di difesa personale afferro la canna della pistola, mi impossesso dell’arma, lo colpisco sulla testa e solo allora mi accorgo che è finta. Ora lui ha libere entrambe le mani, si butta in avanti, il suo volto tra la mia spalla e il mio collo. Io mi divincolo nel tentativo di togliermelo di dosso, ma è pesante, sovraeccitato e violento. Urlo ancora, in questa via sentono qualsiasi respiro di giorno e invece ora… Lui mi schiaccia nuovamente bocca e naso, io lo attacco all’occhio sinistro infilandogli il pollice nell’orbita. Gli faccio male, indietreggia col busto e perde lo scaldacollo che gli copre il volto. Mi infila la sua lingua in bocca, ‘ora gli do un morso’, penso, ma sono sopraffatta da un conato e non ci riesco. Urlo di nuovo e appena lui avvicina di nuovo la sua mano alla mia faccia, io mordo il suo dito.

Sento il sapore del sangue, lui urla e si incattivisce ancora di più. Più mi ribello, più lui si accanisce e allora cedo, falsamente cedo, mi lascio andare e gli dico che faccio ciò che vuole, basta che mi fa respirare. Scende da un lato dal letto, io scendo dall’altro, rapidamente accendo la luce, afferro il cellulare sul comodino, lo infilo nella tasca della camicia da notte e lo invito a recarsi in bagno a lavarsi la mano sanguinante. Come in un film prevedo di seguirlo in bagno e farlo a pezzetti. Ormai sono iper reattiva, iper percettiva, ho solo voglia di ucciderlo. Nel frattempo mia madre si sveglia, da sotto mi chiama, spero che non salga, invece lo fa. Debbo proteggerla quindi, mentre lui è in bagno, chiamo il 112 e chiedo che intervenga al più presto. Lui scappa, ma io già so che tornerà, lo sento. Ha un terreno a pochi metri da qui, magari ha delle armi vere.

Nonostante le mie urla nessuno si affaccia. Apro le finestre dico a mia madre di gridare al fuoco, telefono a una vicina di casa, mi metto dietro la porta, che non si chiude e, come previsto, lui è già qui. Cerca in tutti i modi di entrare, io faccio leva con la spalla, lui infila una mano e io la colpisco con ciò che trovo, lui infila un braccio e io spingo ancora più forte la porta, lui infila la testa e io afferro un oggetto di porcellana, pesante, lo colpisco, lo colpisco sulla fronte finché lo vedo sanguinare. Lui molla la presa quel tanto che mi permette di chiudere la porta col mio peso. Nonostante le mie grida, il cane che abbaia, nessuno si affaccia. Sono esausta. Arriva la volante dei Carabinieri e lo trova seduto sulle scale, lo portano via.

La mia stanza è sottosopra, c’è il suo sangue, il suo odore, la sua presenza nell’aria. Io mi sento sporca, ma non mi cambio. Viene chiamato il 118 e mi accompagnano al pronto soccorso più vicino. Sono trascorsi circa 59 minuti… Dall’inizio di tutto“.

Marzia denuncia il fatto al tenente e al maresciallo del Nucleo Operativo contro le violenze sessuali intervenuto in risposta alla sua chiamata. Le consigliano di rivolgersi a un Centro Antiviolenza, dandole i loro numeri di riferimento in caso di bisogno.
Come molte altre donne, Marzia avrebbe potuto scegliere di continuare a vivere temendo per sé, per sua figlia e per sua madre, ma ha deciso di andare a fondo, di chiedere giustizia.

Vengo dimessa alle 5.00 di mattina circa, mia figlia è con me, torniamo a casa in auto. Vado al bar che lui frequenta, sono pallida, esausta, ma entro, mi guardo intorno e racconto con rabbia l’accaduto, faccio nome e cognome e poi chiedo a voce alta cosa provano nello scoprire che il loro compagno da bar è uno stupratore. Silenzio.

Sono arrabbiata, sono sporca, sono insoddisfatta perché lui sta respirando la mia stessa aria, ancora, sono ferita dall’aver dovuto condividere la sua parte oscura, sembra quasi mi sia penetrata oltre la pelle.
Torno a casa, mi guardo intorno, afferro tutto ciò che ritengo contaminato e lo getto di sotto, nel mio giardino, più tardi ne faccio mille pezzi.

Ho bisogno di una doccia, ma per quanto mi insaponi, per quanto mi gratti con le unghie, non riesco a togliermelo di dosso. Chiamo il numero di emergenza del Centro Antiviolenza, un’operatrice mi illustra dove rivolgermi fisicamente. Scelgo volutamente di appoggiarmi fuori dal territorio di competenza, nei paesi e nelle province o si conoscono tutti o sono tutti imparentati.

Non so quante volte dovrò raccontare ancora l’accaduto, ma lo faccio con la consapevolezza che ogni piccolo dettaglio è fondamentale. Intanto lui sta in custodia cautelare, in carcere.
Debbo chiedere l’autorizzazione per essere assistita da un legale di un altro Foro di competenza, debbo andare in Tribunale e ritirare, compilare, raccontare. Incontro per lo più donne. Ho intenzione di usufruire del gratuito patrocinio e ricevo informazioni contrastanti, quasi tutte convergenti a un’unica opzione, e cioè solo in base al reddito.

Per Marzia inizia un calvario fatto di passaggi burocratici infiniti, di ripetizioni di quella storia così dolorosa a persone diverse, nel frattempo la sua porta è stata rinforzata con i catenacci, ma il pensiero di quanto successo, ovviamente, non la abbandona. Poi, finalmente, trova una volontaria che decide di aiutarla: passano tre mesi e le viene comunicata la data del processo.

Quando arriviamo troviamo i suoi parenti, i suoi amici in attesa che lui giunga dal carcere. Arriva, mi passa vicino, ammanettato, con un mezzo sorriso sul volto, per niente pentito.
Il processo avviene a porte chiuse, il pm, io sola, col mio legale, lui col suo.
Ovviamente lui ha fatto richiesta di rito abbreviato e ciò implica che la vittima non possa parlare, parlano gli atti per lei.

Il Nucleo Operativo dei carabinieri ha steso un verbale così accurato nei dettagli che, quando il pm parla, io rivivo ogni attimo di quella sera, in modo preciso e doloroso.
Il suo legale affronta la difesa parlando di un sentimento che lui prova nei miei confronti da anni, di un innamoramento che lo spinge verso di me in modo sì sbagliato, ma dettato dalla passione. L’avvocato riferisce che il suo assistito aveva bevuto in modo eccessivo, non è vero, assolutamente. Sono infermiera da più di trent’anni, ho lavorato nell’emergenza e so distinguere tra gli effetti dell’alcool e quelli della cocaina, ma non posso parlare e non posso dire che odore e sapore della sua lingua non avevano nulla a che vedere con l’alcool.

Si sente il legale che parla e il pm agguerrito che smonta in modo incisivo tutti i tentativi di rendere giustificabile ciò che non lo è.
Io mi rifugio in me stessa e tutti parlano di me, per me, ma non con me. Ho il capo piegato in avanti che alzo di colpo quando sento il suo legale che dire ‘Beh non si può parlare di violenza sessuale, la signora non ha mica vent’anni!’.
Già…ne compirò 52 tra pochi mesi.

Nonostante l’agghiacciante arringa dei suoi difensori, l’uomo viene condannato a sei anni, ridotti a quattro con il rito abbreviato, da trascorrere in carcere o ai domiciliari, ma in un luogo lontano dal paese, con il dispositivo elettronico e una provvisionale di 12.000 euro che però, assicura Marzia, “non ho mai percepito”.

Nonostante le restrizioni, e i domiciliari in un paese a 10 chilometri di distanza, l’uomo continua a frequentare gli stessi posti, con il pretesto di andare a lavoro in un’azienda agricola che lo ha assunto proprio mentre si trova agli arresti. “So che lo mettono al corrente dei miei orari e dei miei spostamenti, quindi fingo di vivere la solita routine e invece lo vedo, lo fotografo e lo denuncio per ben due volte per non avere rispettato gli ordini restrittivi. Alla fine deve scontare la condanna a domicilio, perde l’appello e il terzo grado di giudizio e in più sconta ulteriori mesi perché al momento dei fatti era in libertà condizionale per un precedente reato“.

Fra le varie cose che Marzia si è sentita dire da lui, tramite i suoi legali o i suoi parenti, ci sono:

  • Era innamorato, ha dimostrato in modo impacciato il suo affetto per me.
  • Cercava affetto, si era separato dalla moglie, pensava che io fossi lei.
  • È stato provocato da me, addirittura io ho fatto in modo che lui potesse aprire la mia porta con le mie chiavi, gli ho dato confidenza, porto i leggings e quindi l’ho irretito.
  • Non dovevo chiamare i Carabinieri, potevamo risolvere tutto tra noi.

Le reazioni intorno a lei, invece, sono diverse: c’è chi la incoraggia ad andare avanti a proseguire con il procedimento legale, altri, soprattutto fra chi ha un rapporto di conoscenza con lui, la evita, e in seguito la colpevolizzano; c’è persino chi invita sua madre a farla ragionare, a convincerla che, in fondo, non è successo nulla di grave. Marzia dice di sentire attorno a lei un silenzio sconcertante, che si fa rabbia quando un’assistente sociale “mi definisce fortunata per essere viva e dopo aver tentato in tutti i modi di sapere se ‘c’è stata proprio violenza – domanda che mi viene rivolta anche da altre persone. Io non ho alcuna intenzione di soddisfare la morbosità di chiunque, soprattutto di chi non ha ancora chiaro il concetto del reato di violenza sessuale“.

“Io, mia madre e mia figlia siamo generosamente salutate ogni giorno con epiteti offensivi da parte della madre. Le finestre di casa sua sono così vicine alla mia che può permettersi di urlare parolacce e maledizioni al nostro indirizzo sapendo che arrivano a destinazione. Può fare riunioni con famigliari e conoscenti e raccontare la verità del figlio. In poco tempo mia madre si isola in casa, mia figlia, fortunatamente, studia fuori sede e io… Sopravvivo.

Sopravvivo alle dinamiche autodistruttive, disistimanti, di diffidenza, di isolamento, di rifugio dalle relazioni fisiche in tutte le loro manifestazioni.
Soffro di attacchi di panico, non sopporto che nessuno mi sfiori, non sopporto nemmeno che qualcuno mi si sieda accanto, non dormo, e debbo ricorrere agli psicofarmaci per attenuare lo stress post traumatico. Inizio la psicoterapia perché mi sento spaccata, mi sento male. Penso a me infermiera per scelta che in tanti anni ha fatto della relazione d’aiuto il suo scopo e penso a me donna ferita che nel momento del pericolo ha desiderato fortemente uccidere“.

Io non sono ciò che mi è successo, io sono una persona, una donna, una madre, una professionista che è stata trascinata con violenza fuori dal suo sogno di vita, dai tempi diluiti di una quotidianità salvata dai ritmi convulsi della città, dall’aria leggera che respirava ogni mattina prima di recarsi al lavoro.
Di una cosa sono certa, le mie alternative di vita, in quanto donna, non sono l’essere o no uccisa e/o l’essere o no penetrata, quindi no, non sono ‘fortunata’ e non permetterò più a nessuno di dirmelo.
Ho diritto di vivere e di scegliere, sempre e comunque.

Marzia, cosa consiglieresti alle donne vittime di violenza?

Per prima cosa rivolgetevi a un Centro Antiviolenza.
Non ascoltate chi vuole farvi desistere dal denunciare, non mollate, mai.
Fatevi aiutare psicologicamente perché il passaggio verso dipendenze autodistruttive è veramente in agguato.
Fate corsi di difesa personale, fateli fare alle vostre figlie, sappiate che le vostre paure si trasmettono anche a loro.
Non so che altro dire, non si può consigliare altro che non permettere che niente e nessuno ci distruggano più di quello che è già successo.
Denunciate, sempre“.

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