Diritto alla disconnessione: perché è importante parlarne, e metterlo in pratica
Il diritto alla disconnessione esiste ed è importante iniziare a metterlo in atto: ecco perché e come possiamo farlo.
Il diritto alla disconnessione esiste ed è importante iniziare a metterlo in atto: ecco perché e come possiamo farlo.
Sembra che l’orario di lavoro si sia esteso per escludere tutte le ore di veglia, perché siamo contattabili sui nostri dispositivi notte e giorno, ogni giorno della settimana, festivi e eventi importanti compresi. Il diritto alla disconnessione, però, dovrebbe essere tutelato per tutte e tutti, così da permetterci di staccare – davvero – dal lavoro. Ma come si fa?
L’European Foundation for the Improvement of Living and Working Conditions definisce il diritto alla disconnessione come “il diritto del lavoratore di potersi disimpegnare dal lavoro e di astenersi dall’intraprendere comunicazioni elettroniche legate al lavoro, come e-mail o altri messaggi, durante le ore non lavorative”.
Detto in parole più semplici: è la possibilità di staccare dal lavoro non solo fisicamente, ma anche attraverso la possibilità di interrompere le comunicazioni (chiamate, ma soprattutto email e chat) quando la giornata lavorativa finisce.
Una possibilità che per molti lavoratori sta diventando sempre più ristretta, non solo per non ha un orario fisso come i liberi professionisti ma anche per chi ha un contratto da dipendente che stabilisce chiaramente orari e mansioni.
Secondo una ricerca di Deloitte e Workplace Intelligence, l’84% dei lavoratori ha dichiarato che migliorare la propria salute mentale, fisica e finanziaria era una “massima priorità” quest’anno. Più di ottenere un avanzamento di carriera (74%).
Carichi di lavoro pesanti, orari di lavoro lunghi, insoddisfazione e stress, però, sono in cima alla lista degli ostacoli che secondo gli intervistati ostacolano il miglioramento del loro benessere. Quasi tre quarti dei dipendenti hanno detto di avere difficoltà a prendersi una pausa o a disconnettersi dal lavoro.
Questo si traduce in emozioni negative e stanchezza: circa la metà afferma di sentirsi “sempre” o “spesso” esausta (52%) o stressata (49%).
Alcune ricerche sulle tecnologie legate al lavoro e sul lavoro digitale, comprese alcune che analizzano i collegamenti con la salute mentale hanno coniato il termine “tecnostress”, proprio per le sue caratteristiche specifiche.
Nella sua risoluzione del 21 gennaio 2021, il Parlamento europeo ha invitato gli Stati membri a «riconoscere il diritto alla disconnessione come fondamentale», perché inseparabile dai nuovi modelli di lavoro. Il Parlamento europeo ha quindi esortato la Commissione a presentare una proposta di direttiva per «regolamentare l’uso degli strumenti digitali», definire le «condizioni minime» per esercitare il diritto alla disconnessione e attivare «meccanismi per la gestione dei reclami o delle violazioni».
Alcuni membri avevano già agito in autonomia: la Francia, per esempio, considerata da molti come pioniera in questo settore, ha promulgato una legislazione nell’agosto 2016 che consente ai dipendenti di spegnere telefoni e altri dispositivi al di fuori dell’orario di lavoro. Non solo: le aziende con più di 50 dipendenti sono obbligate a redigere una “carta di buona condotta” che stabilisce orari specifici in cui il personale non può inviare o ricevere e-mail.
Il Portogallo da novembre 2021 ha inserito il “diritto al riposo” e le aziende con 10 o più dipendenti rischiano multe per aver contattato il personale al di fuori dell’orario di lavoro stabilito. Anche Belgio ha approvato una legge in materia nel febbraio 2022 che consente ai 65.000 dipendenti del settore pubblico di interrompere le e-mail di lavoro, gli SMS e le telefonate ricevute fuori orario, senza timore di ritorsioni.
Oltre alle leggi statali – che sta adottando anche il Kenya, primo Paese africano a farlo – diverse grandi aziende hanno preso l’iniziativa per proteggere i propri lavoratori con accordi che sostengono il diritto dei dipendenti alla disconnessione.
L’Italia, però, spiega un articolo su Morning Future, è «uno dei paesi in cui sembra più difficile creare una separazione formale e sostanziale tra vita privata e vita professionale». Dopo un primo accenno legislativo nel 2017, senza sviluppi, nel maggio 2020 il Garante Privacy, complice la pandemia e il boom del lavoro da remoto, ha invocato per la prima volta il diritto alla disconnessione, senza il quale, spiegava «la necessaria distinzione tra spazi privati e lavorativi rischia di sfumare».
Il decreto 13 marzo 2021, n. 30, è il primo a menzionare esplicitamente il «diritto alla disconnessione dalle apparecchiature tecnologiche e dalle piattaforme informatiche» in un’ottica di tutela del «riposo e della salute» dei lavoratori. Infine, il protocollo nazionale sul lavoro agile è stato sottoscritto da 26 organizzazioni sindacali e datoriali.
Il protocollo spiega che, anche se lo smart working è caratterizzato «dall’assenza di orari di lavoro precisi», è possibile individuare «fasce orarie di disconnessione», che devono essere garantite adottando «specifiche tecniche e/o misure organizzative».
In realtà, come sappiamo molto spesso il termine smart working viene utilizzato in luogo di “lavoro da remoto”, che invece prevede orari stabiliti che devono essere rispettati. Da parte del lavoratore, ovviamente, che deve assicurare la presenza secondo quanto stabilito dal proprio contratto, ma non da colleghi o datori di lavoro, che si sentono in diritto di contattarlo in qualunque momento.
Nondimeno, il protocollo è un passo fondamentale nella direzione giusta, perché mette nero su bianco che smart working non significa obbligo di essere connessi e reattivi 24/7.
Lavorare per orari prolungati può avere una grande influenza sul benessere mentale e, nell’era digitale, esiste il rischio reale che i dipendenti sentano di dover essere “sempre attivi” e costantemente disponibili.
Questo può rappresentare un serio ostacolo a un sano equilibrio tra lavoro e vita privata, sul benessere mentale e anche sul lavoro stesso: se da un lato lavorare al di fuori degli orari abituali può migliorare le prestazioni, dall’altro comporta anche maggiori esigenze man mano che il lavoro diventa più intenso e, alla fine, può trasformarsi in un boomerang.
Essere sempre connessi ci impedisce di staccare e approfittare del tempo che dovrebbe essere solo nostro, da condividere ci amici e parenti. Ci impedisce di godere di momenti, luoghi, spazi che dovrebbero essere personali e che invece vengono invasi prepotentemente da esigenze lavorative spesso non urgenti e differibili e dalla sensazione che ignorandole si stia venendo meno ai propri doveri.
Non solo: l’eccessivo adattamento agli strumenti di comunicazione tecnologici, o un loro utilizzo elevato, può essere problematico. Di solito, si stabilizza man mano che i dipendenti si abituano alla tecnologia e trovano un equilibrio nell’uso quotidiano, ma in alcuni casi l’incapacità di farlo può trasformarsi in una dipendenza.
Esercitare il diritto alla disconnessione non è facile, non solo perché mancano delle leggi specifiche – come esistono ad esempio in Francia, Belgio e Portogallo – ma soprattutto a causa della cultura aziendale che ci vuole sempre disponibili perché ci convince di essere indispensabili e che se chiudiamo i canali di comunicazione nel nostro tempo libero non stiamo facendo il nostro dovere.
La pressione è a tutti i livelli, non sono a quello del management ma anche da parte dei colleghi, e questo rende ancor più difficile sottrarvisi. Soprattutto, la pressione viene da noi stessi e spesso ci convinciamo che l’iperconnessione sia una scelta volontaria.
Il primo passo è capire che non è così: che a meno di non avere una reperibilità adeguatamente contrattualizzata e retribuita, nulla ci obbliga a essere disponibili 24/7 sui nostri dispositivi, soprattutto se si tratta di quelli personali. Il secondo è mettere dei limiti chiari, in maniera educata ma ferma. Se non si ha la capacità di ignorare i messaggi una volta ricevuti e non si vuole spegnere il telefono aziendale interrompendo tutte le comunicazioni al di là dell’orario stabilito, è possibile impostare dei filtri per autorizzare solo determinati contatti o tipi di comunicazione.
Un modo educato ma gentile per far capire ai clienti o persone con cui non lavoriamo quotidianamente ma che potrebbero provare a contattarci nel nostro tempo libero è impostare una risposta automatica spiegando quali sono i nostri orari lavorativi e che risponderemo una volta tornati operativi, avendo cura di fare lo stesso rispettando il lavoro degli altri quando si scrive fuori orario, ad esempio aggiungendo alla fine del messaggio «Sto lavorando in modo flessibile, ma anche si per me è più comodo inviare questa email adesso non mi aspetto una risposta o un’azione al di fuori del tuo orario di lavoro».
Curiosa, polemica, femminista. Leggo sempre, scrivo tanto, parlo troppo. Amo la storia, il potere delle parole, i Gender Studies, gli aerei e la pizza.
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