Burnout culture: perché il nostro cervello non può reggere i tempi moderni

Per burnout culture si intende una dimensione professionale e, in maniera correlata, un approccio al lavoro totalizzanti, stressanti e dominati dalla pressione di fare, produrre ed "essere sul pezzo", sempre pronti a rispondere a chiamate e mail e a risolvere imprevisti di qualsiasi natura, anche nel tempo libero e nel weekend. Vediamo quali sono i suoi effetti e come superarla.

Viviamo nell’epoca dell’iperproduttività: un’epoca in cui più siamo occupati ed efficienti, più sembriamo persone di valore, impegnate e quindi degne di rispetto e riconoscimento sociale.

Una netta inversione di tendenza rispetto ai secoli scorsi, in cui l’ostentazione di tempo libero era considerata sinonimo di privilegio e ricchezza. Oggi, al contrario, manifestare operosità, non avere tempo per sé e per i propri cari e ostentare sforzo costante è divenuto sintomo di stima e posizione di rilievo all’interno della propria cerchia professionale: un’ottima risposta al dettame secondo il quale bisognerebbe rendere “fatturabili” tutte le ore a nostra disposizione – anche quelle al di là dell’orario strettamente lavorativo.

Con una conseguenza deleteria per il nostro benessere psicofisico: l’esaurimento. Per tale ragione si parla, infatti, di “burnout culture“, a indicare la pervasività di una cultura incentrata sul lavoro e sull’impegno costanti e soffocanti. Vediamo di che cosa si tratta nel dettaglio.

Che cosa significa burnout culture?

Per burnout culture si intende, dunque, una dimensione professionale e, in maniera correlata, un approccio al lavoro totalizzanti, stressanti e dominati dalla pressione di fare, produrre ed “essere sul pezzo”, sempre pronti a rispondere a chiamate e mail e a risolvere imprevisti di qualsiasi natura, anche nel tempo libero e nel weekend.

Una cultura che sta divenendo sistemica e intacca potenzialmente qualsiasi ambiente di lavoro, senza distinzioni di competenze e ruoli. E che, come si evince dall’espressione, conduce ai sintomi tipici del burnout, quindi: somatizzazione del malessere, ansia, depressione, stanchezza cronica, malattie cardiovascolari, disturbi gastrointestinali, dolori muscolo-scheletrici, insonnia, irritabilità, apatia e frustrazione.

Come testimonia, tra gli altri, Robbie McDonald, stakanovista presso un ente no profit:

Essere iper-occupato mi faceva sentire una risorsa molto valida, dotata di abilità molto richieste. Alimentava la mia insicurezza e sindrome dell’impostore. Più ero indaffarato e più mi facevo carico di altre mansioni, per il timore di sembrare inutile. Ne andavo decisamente fiero, e arrivavo a lamentarmi con colleghi e amici del troppo lavoro. Eppure, sotto sotto ero orgoglioso che così tante persone facessero affidamento su di me.

La diffusione della burnout culture

Secondo una ricerca condotta da Gallup, il 76% dei lavoratori sperimenta almeno qualche volta il burnout. Tradotto: tre persone su quattro. Un numero elevatissimo, che offre un quadro di ciò in cui si sta trasformando il mondo del lavoro nell’epoca della velocità tecnologica e dell’assottigliamento sempre più marcato del confine tra vita pubblica e privata.

Ciò su cui l’indagine pone particolare attenzione è la percezione del burnout: l’esaurimento, infatti, viene avvertito individualmente ma può influenzare le organizzazioni in modo olistico.

Che cosa significa? Che il burnout non è solo una condizione di malessere psicofisico del singolo dipendente, ma può impattare in maniera significativa sui profitti e sull’andamento generale di un’azienda, intaccandone la produttività, causando assenteismo e turnover più frequenti e maggiori costi sanitari.

Che cosa può causare un burnout?

Ma quali sono le cause del burnout? L’Harvard Business Review identifica le seguenti condizioni:

  • Mancanza di autonomia: l’esaurimento può sopraggiungere quando si sente di avere poca autodeterminazione su come e quando lavorare, motivo per cui i manager di un’azienda attenta ai bisogni dei propri lavoratori ripongono fiducia che questi ultimi possano portare a termine i compiti assegnati secondo il proprio buon senso, garantendo a essi flessibilità e deadline appropriate;
  • Mancanza di equità: quando il duro lavoro non viene apprezzato e/o si ha la sensazione di non essere trattati al pari dei colleghi, si può incorrere più facilmente in stati di stanchezza cronica, demotivazione e apatia;
  • Carico di lavoro insostenibile: spesso i datori di lavoro non hanno una chiara percezione di quanti impegni professionali possano gestire i propri dipendenti, con la conseguenza che questi, per la paura di dire “No”, si sovraccarichino e portino le proprie incombenze professionali anche fuori dall’ufficio;
  • Mancanza di ricompensa: tristezza e insoddisfazione legate al lavoro possono scaturire anche quando i compiti svolti non incontrano la giusta compensazione e il giusto riconoscimento, in termini di stipendio, promozioni o altri incentivi;
  • Mancanza di sostegno comunitario: il team deve essere supportivo e aggregato, o perlomeno tentare di essere tale; in assenza di coesione e visione condivisa, perciò, il rischio è quello di sentirsi soli e non adeguatamente supportati, con la paura di essere giudicati in caso di errori e di non potersi sentire al sicuro;
  • Valori disallineati: una decrescita di motivazione, infine, si può originare anche dall’assenza di compatibilità tra i nostri valori e quelli diffusi dall’azienda per cui lavoriamo, con conseguenti malumori e dissidi morali.

Le conseguenze della burnout culture

Gli effetti di una cultura che fa del burnout un simbolo di iperproduttività, apprezzamento sociale e valore umano non possono che essere deleteri per il nostro benessere fisico, mentale ed emotivo.

Pensare alla propria vita come a una corsa costante verso il “successo”, inteso alla stregua di assenza di tempo libero e abnegazione totale al lavoro, infatti, erode con progressione e perseveranza il sano equilibrio che dovrebbe sussistere tra l’impegno professionale e la vita che scorre fuori dall’ufficio, e che ci nutre e ci rigenera mediante i legami affettivi, le passioni, il riposo e lo sport.

Diminuire lo spazio che intercorre tra queste due dimensioni provoca delle conseguenze a lungo termine che, una volta cronicizzate e interiorizzate, potrebbero essere difficili da decostruire. Forbes ne cita qualcuna: impoverimento energetico ed esaurimento, negativismo o cinismo verso il proprio lavoro, senso di distanza e ridotta efficacia professionale.

Ma, come accennato, i sintomi possono essere anche fisici, tra cui: abuso di psicofarmaci, fumo e alcol, maggiore sedentarietà, alimentazione squilibrata, affanno, vertigini, difficoltà a recuperare sonno e forze, ipertensione, aumento del colesterolo, infarto e ictus, gastroenteriti, dolori generalizzati e disturbi legati alla salute mentale.

Come evitarne la diffusione e superarla

Il modo più efficace per evitare la diffusione della burnout culture e, quindi, superarla è la prevenzione. E questa, molto spesso, ha inizio propri a partire dai colloqui.

In fase di dialogo con le Risorse Umane e/o il manager di riferimento, infatti, abbiamo la preziosa opportunità di sondare quali potrebbero essere gli atteggiamenti nei confronti del lavoro e, nel complesso, quale sia la cultura aziendale, con importanti indicazioni circa gli orari, gli straordinari, il clima tra i colleghi e i vari benefit previsti.

Ecco alcune domande che potremmo porre:

  • «Quali sono gli orari di lavoro standard?»;
  • «Quanto spesso le persone devono lavorare nei fine settimana?»;
  • «Come distribuite il carico di lavoro e le scadenze?»;
  • «Come gestite eventuali errori all’interno del team?»;
  • «Ho flessibilità quando svolgo il mio lavoro durante il giorno?».

In questo modo, è possibile rifuggire potenziali pericoli e accorgersi, fin dal momento del colloqui, degli eventuali campanelli d’allarme che, in futuro, potrebbero condurci a un esaurimento nervoso e rischioso per la nostra salute. E, piano piano, erodere l’equazione secondo cui un carico eccessivo di lavoro sia sinonimo di agiatezza sociale, riconoscimento e importanza.

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