Erano le 17,40 del 31 ottobre 1926 quando un ragazzino di nemmeno 15 anni sparò a Mussolini. Il colpo andò a vuoto, e a morire fu lui. Linciato dalla folla e accoltellato dai fascisti. Una targa sulle mura ricorda Anteo Zamboni, il figlio di anarchici che cercò di uccidere il Duce.

Quella del fallito attentato bolognese a Mussolini è una storia che ancora oggi lascia molti interrogativi aperti. Anteo Zamboni agì da solo, spinto dall’odio verso il fascismo, perché “aveva un sogno, uccidere Benito?” come cantano Inoki Ness e gli Assalti Frontali in Banditi nella sala? Fu la mano armata di un’azione familiare legata all’ambiente anarchico bolognese, come stabilì un’inchiesta che lo stesso presidente del Tribunale Speciale dichiarò essere stata falsata per compiacere il Duce? O, come vuole una teoria dai numerosi riscontri, fu il capro espiatorio di un complotto interno al fascismo che indicò in lui lo sparatore anche se a compiere il gesto fu qualcun altro e i mandanti erano molto più vicini a Mussolini?

Secondo lo storico Renzo De Felice, si tratta di un evento destinato a rimanere tra gli episodi oscuri del ventennio fascista, perché l’ipotesi che si sia trattato di un gesto isolato di Anteo Zamboni e quella secondo cui si tratta di un complotto maturato in seno al dissidentismo legato al fascista Farinacci si bilanciano in modo tale che è difficile propendere per l’una o per l’altra e difficilmente verrà chiarita la verità.

Brunella Dalla Casa, direttrice dell’Istituto per la storia della Resistenza e della società contemporanea nella provincia di Bologna autrice de Attentato al duce. Le molte storie del caso Zamboni sembra propendere per l’ipotesi del complotto farinacciano, sebbene il libro avvalori anche la tesi dell’azione isolata di Anteo Zamboni “clamorosa e imprevedibile da parte di tutti”.

Anche nel film di Lina Wertmüller Film d’amore e d’anarchia Mariangela Melato nei panni della prostituta Salomè racconta che la pistola fu gettata ai piedi dell’incolpevole Zamboni, che secondo altre teorie avrebbe effettivamente sparato ma dietro istigazione dei fascisti, che lo avrebbero poi linciato per assicurarsi il suo silenzio.

Al di là delle ipotesi, quello che sappiamo per certo sono due cose. La prima è che a poca distanza dall’attentato il governo di Mussolini – che proprio a Bologna festeggiava il quarto anniversario, dopo la nomina di Mussolini a seguito della Marcia su Roma – varò le “Leggi per la difesa dello Stato”, le cosiddette “Leggi fascistissime”, con cui oltre a sciogliere tutti i partiti politici istituì il Tribunale Speciale per la Difesa dello Stato e reintrodusse la pena capitale e il confino. La seconda, che poco dopo lo sparo che segnò il destino del Paese, e il suo, Anteo fu ucciso.

Mi trovavo come spettatore accanto ai militari di prima linea che erano di cordone, presso l’angolo di via Rizzoli e di via dell’Indipendenza, quando giunse il corteo presidenziale. Mentre dalle finestre dei palazzi cadevano fiori sull’automobile del Duce, un individuo, allontanato bruscamente un soldato del cordone, ha allungato il braccio destro in direzione dell’on. Mussolini facendo l’atto di sparare. Per fortuna un maresciallo dei carabinieri, il sig. Vincenzo Acclavi, del nucleo di Trieste, dava un brusco colpo al braccio dello sconosciuto; così che il colpo, esploso in quel momento, deviava e il Duce sfuggiva per miracolo al criminoso gesto dell’attentatore. Fra i primi ad afferrare lo sparatore furono un tenente del 56º fanteria ed alcuni squadristi.

A ricordare la dinamica dell’attentato è il Maresciallo Francesco Burgio, nella sua testimonianza durante l’inchiesta. Il tenente di cui parla, che per primo afferrò Anteo, era Carlo Alberto Pasolini, padre di Pier Paolo.

Il fattorino quattordicenne fu afferrato e linciato dagli squadristi di Leandro Arpinati e gli arditi milanesi capitanati da Albino Volpi. Dopo averlo accoltellato, già morto è stato lasciato in pasto alla folla, che gli rompe i denti, lo morde, lo colpisce, lo strangola. Il suo corpo martoriato è abbandonato a qualche centinaio di metri dal luogo dell’attentato.

Lì, una lapide lo consacra nel tempo, trucidato “per audace amore di libertà, martire giovinetto dagli scherani della dittatura”.

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