Ius scholae, cosa dice la riforma della cittadinanza che Lega e Fdi vogliono bloccare

Lo ius scholae è una proposta di modifica della legge sulla cittadinanza: ma quali effetti potrebbe avere? Quali i nuovi requisiti? Cosa dice la norma e perché le destre hanno presentato oltre 650 emendamenti per bloccarla?

In Italia ci sono quasi un milione di minori stranieri, oltre l’11% della popolazione. Nati o cresciuti nel nostro Paese, ma privi della cittadinanza che li renderebbe cittadini a tutti gli effetti. Da tempo si parla di una riforma legislativa e il Parlamento sta discutendo l’inserimento del cosiddetto “ius scholae”, una norma che permetterebbe di ottenere la cittadinanza prima dei 18 anni per coloro che hanno frequentato le scuole in Italia.

Ma cosa prevede questa legge? E, soprattutto, quante possibilità ci sono che venga approvata?

Ius scholae: cosa significa e cosa prevede?

Il cosiddetto “ius schoale” (dal latino “diritto in base alla scuola”) è una norma inserita nel testo base di riforma della cittadinanza che consentirebbe ai figli minori di migranti di ottenere la cittadinanza italiana dopo aver frequentato almeno cinque anni di scuola in Italia.

L’articolo 2-bis, che dovrebbe essere aggiunto all’attuale legge sulla cittadinanza (legge 5 febbraio 1992, n. 91), prevede che

Il minore straniero nato in Italia o che vi ha fatto ingresso entro il compimento del dodicesimo anno di età che abbia risieduto legalmente e senza interruzioni in Italia e che, ai sensi della normativa vigente, abbia frequentato regolarmente, nel territorio nazionale, per almeno cinque anni, uno o più cicli scolastici presso istituti appartenenti al sistema nazionale di istruzione o percorsi di istruzione e formazione professionale triennale o quadriennale idonei al conseguimento di una qualifica professionale, acquista la cittadinanza italiana.

L’acquisizione della cittadinanza non è automatica, ma

si acquista a seguito di una dichiarazione di volontà in tal senso espressa, entro il compimento della maggiore età dell’interessato, da entrambi i genitori legalmente residenti in Italia o da chi esercita la responsabilità genitoriale, all’ufficiale dello stato civile del comune di residenza del minore, da annotare nel registro dello stato civile. Entro due anni dal raggiungimento della maggiore età, l’interessato può rinunciare alla cittadinanza italiana se in possesso di altra cittadinanza.

Nel caso questa volontà non fosse stata espressa, è comunque possibile fare domanda entro i due anni dal compimento della maggiore età; per questo, gli ufficiali dell’anagrafe sono tenuti a comunicare ai cittadini stranieri residenti la facoltà di acquisto del diritto di cittadinanza nei sei mesi che precedono il diciottesimo compleanno.

Se la riforma venisse approvata, lo “ius scholae” modificherebbe l’attuale legge sulla cittadinanza, secondo cui un bambino può diventare italiano solo se almeno uno dei genitori ha la cittadinanza e che presenta il vincolo del raggiungimento della maggiore età e richiede che il minore abbia risieduto in Italia legalmente e ininterrottamente.

Ius soli e ius scholae

Uno dei cavalli di battaglia di chi si oppone allo ius scholae è che si tratterebbe in buona sostanza di nient’altro che di uno «ius soli mascherato», come ha detto il sottosegretario all’Istruzione leghista Rossano Sasso, che l’ha definita «una norma ideologica».

Nelle sue parole, però, di vero c’è ben poco: lo ius soli, di cui in Italia si discute periodicamente ma che non è mai stato oggetto di un reale dibattito parlamentare, è infatti una norma che prevede l’acquisizione della cittadinanza da parte di chiunque nasca all’interno dei confini del paese, come accade ad esempio negli Stati Uniti.

È evidente dunque la differenza, anche ideologica, tra le due impostazioni e la pretestuosità di certe critiche, fermo restando che utilizzare lo ius soli come spauracchio sia di per sé una posizione che ignora consapevolmente i benefici del riconoscimento della cittadinanza italiana ai figli di migranti e agli italiani di seconda generazione.

Vantaggi e benefici dello ius scholae

Attualmente, ci sono 850mila figli di immigrati, nati o cresciuti in Italia, senza cittadinanza. Permettere loro di diventare italiani anche dal punto di vista legale non sarebbe solo il riconoscimento di un loro diritto e un elemento chiave di una piena integrazione, ma avrebbe benefici e implicazioni positive sia per questi ragazzi e ragazze e le loro famiglie, che per l’intera società.

Diversi studi che si sono concentrati sia sulla Germania – che ha introdotto lo ius soli nel 2001 – che su altri paesi europei che hanno legislazioni sulla cittadinanza meno rigide di quella italiana, mostrano che diventare cittadini a pieno titolo ha un effetto positivo sulle performance scolastiche dei minori stranieri, riduce il loro tasso di abbandono e accresce le probabilità di intraprendere percorsi di istruzione propedeutici alla frequenza universitaria.

Non solo: molte ricerche in ambito economico hanno mostrato come l’acquisizione della cittadinanza sia un elemento fondamentale per l’integrazione socio-economica dei migranti, soprattutto dal punto di vista dell’ingresso dei migranti adulti nel mercato del lavoro.

La cittadinanza non solo riduce il divario tra migranti e nativi, ma è associata a lavori più duraturi e salari più alti, soprattutto per donne e ragazze naturalizzate che, rispetto alle loro coetanee senza cittadinanza, tendono a posticipare il matrimonio e la maternità, colmando così un terzo del divario immigrati-nativi rispetto all’età del matrimonio e quella del primo parto.

Ius scholae: a che punto siamo?

L’iter legislativo della riforma, che è attualmente in discussione alla Commissione Affari costituzionali di Montecitorio rischia di essere pesantemente ostacolato dai 728 emendamenti al testo inizialmente presentati, la maggior parte dei quali privi di significato, se non quello di fare ostruzionismo. La maggioranza (651) sono stati presentati da Lega e Fratelli d’Italia: 484 dal Carroccio, 167 dal partito di Giorgia Meloni.

Non si tratta solo dell’introduzione di requisiti più stringenti dalla dubbia utilità e privi di qualunque giustificazione logica – come prove scritte e/o orali per accertare la conoscenza di festività, sagre tipiche, tradizioni enogastronomiche, usi e costumi regionali, oppure l’introduzione di requisiti minimi aggiuntivi stabiliti in termini di media scolastica – ma anche di micro-modifiche al testo che non hanno alcuno scopo se non quello di rallentare la discussione della norma al fine di arenarla in Parlamento, come accaduto al ddl Zan, non essendoci materialmente il tempo, negli 11 mesi di legislatura rimanenti, di discutere tutti gli emendamenti presentati.

Ettore Maria Colombo su Luce ne ha raccolti alcuni esempi, che mostrano come non si tratti altro di una forma di ostruzionismo parlamentare fine a se stessa, al punto che il presidente della Commissione Giuseppe Brescia (M5s) ne ha respinti molti perché «prive di contenuto normativo»:

Il leghista Igor Iezzi voleva sostituire la parola “raccogliere” con “radunare”. Un altro leghista, Cristian Invernizzi, “vi ha fatto ingresso” con “vi è giunto”. Ketty Fogliani, forse meno sensibile al fascino dell’Accademia della Crusca, con “vi è arrivato”. A Fogliani poi non piace la parola “interruzioni”, preferisce “discontinuità” (ma non è la stessa cosa). Alberto Stefani (sempre Lega) predilige, rispetto a “in tal senso”, la locuzione “a questo scopo”. Edoardo Ziello e Gianni Tonelli vogliono ‘tradurre’ il termine “espressa” uno con “specificata” e uno con “esternata”.

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