Sex worker, la lotta per i diritti e la dignità del lavoro sessuale

Colpiti tuttora da stigma e discriminazioni sociali, i lavoratori sessuali non godono ancora dei diritti e delle tutele che, giustamente, spettano loro. Una situazione già altamente precaria resa ancora più difficile dalla pandemia da Covid-19, che ha corroborato una raffigurazione falsata delle/dei sex worker.

Ogni giorno, nelle nostre professioni, mettiamo a disposizione dei nostri datori di lavoro e dei nostri “clienti” i nostri occhi, la sapienza delle nostre mani, talvolta il gusto e l’olfatto, il nostro udito per rispondere a ciò che ci viene richiesto e, praticamente sempre, il nostro ingegno e la nostra creatività.

Di fronte a un quadro di questo tipo, nessuno si sognerebbe di inficiare il lavoro che svolgiamo diligentemente e con cura o, addirittura, di “declassarlo” a non-lavoro: che sia la fatica nei campi, lo scrivere un libro o l’occuparsi della contabilità, qualsiasi ambito in cui è richiesta una partecipazione dei nostri sensi e del nostro intelletto si tramuta, automaticamente, in una professione degna di questo nome.

Vi è, però, un particolare ambito lavorativo che, da sempre, reca con sé i fardelli dello stigma: il sex work. Il lavoro sessuale è, infatti, tuttora vittima di insulti, violenza, leggi criminalizzanti, emarginazione, discriminazioni, sensi di colpa e innumerevoli altre derive, umane e sociali. E lotta per essere riconosciuto al pari degli altri impieghi, affrancandosi da dicotomie figlie di antichi retaggi culturali (una su tutte: “santa/put*ana”) e imposizioni morali di stampo religioso.

Vediamone i dettagli.

Sex worker: chi sono?

Nata dall’accostamento delle parole “sex” (sesso) e “work” (lavoro), l’espressione sex worker identifica tutte quelle persone – per la maggior parte donne, ma non mancano individui transgender e transessuali e uomini – che, outdoor o indoor, vendono prestazioni di carattere sessuale, erotico o romantico.

Come spiega l’antropologa, educatrice sessuale e sex worker Giulia Zollino nel suo libro, Sex work is work – punto di riferimento, soprattutto sui social e nelle scuole, per la sensibilizzazione e la divulgazione sul tema:

Solitamente con lavoro sessuale si intende qualsiasi tipo di attività che prevede un accordo commerciale esplicito tra due o più parti (chi vende e chi compra), con il quale si stabilisce una retribuzione economica (sotto forma di denaro o doni) in cambio di un servizio sessuale/erotico/romantico concordato e limitato nel tempo.

Ne deriva, dunque, che il sex work possa dipanarsi in molteplici declinazioni, e che la definizione sia

un termine ombrello – continua Zollino –, che racchiude molteplici tipologie di attività, tra cui il lavoro indoor offline (appartamenti, night club, centri massaggi), quello outdoor (in strada), ma anche la pornografia, la vendita di contenuti audiovisivi o intimo usato, le linee erotiche, le cam e così via.

Sex work is work

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Alla base, perciò, soggiace, come in qualsiasi professione, un accordo tra le parti prese in considerazione e uno scambio equo e negoziato – sulla base dei confini imposti da chi vende –, in grado di tutelare il più possibile sia la/il sex worker, sia il cliente.

Come dimostra la valenza stessa dell’espressione, introdotta dalla femminista e attivista Carol Leigh negli anni ‘70. Infatti, precisa Giulia Zollino:

L’introduzione del termine rappresenta un momento cruciale per la storia dei movimenti e determina una rivendicazione politica ben precisa: si tratta di sesso, ma soprattutto di lavoro. In un settore in continua espansione e diversificazione, utilizzare termini “neutri” e non (almeno tradizionalmente) connotati negativamente sembra essere la scelta migliore per includere non solo la pluralità delle soggettività coinvolte nei mercati sessuali, ma anche la grande varietà dei servizi.

La definizione sex work introduce, così, una rivoluzione copernicana: al centro non vi è più la donna – “put*ana”, “meretrice”, “immorale”, “sporca” –, bensì il lavoro e le sue attività principali, scevre di riferimenti morali e sociali.

Sex worker: leggi e diritti

Non sempre, tuttavia, tale discorso – in apparenza lineare e privo di ostacoli – trova riscontro nella realtà. Oltre alle donne vittime di alcuni tipi di tratta, alle quali risulta spesso impossibile stabilire condizioni e tempi di lavoro, è assente, nel complesso, un sistema solido e strutturato di leggi e garanzie atti a normare il sex work.

Come si legge anche su Il Post, i modelli legislativi che regolano il sex work nel mondo sono attualmente quattro:

  1. Il proibizionismo, in vigore, per esempio, in Croazia, in base al quale lo Stato «sanziona e punisce la persona che si prostituisce, il cliente e tutto ciò che ne può agevolare l’esercizio»;
  2. Il neo-abolizionismo – diffuso in Italia, Spagna, Inghilterra e Argentina –, che facendo propria una delle istanze di alcuni movimenti femministi, ossia quella per cui le sex worker sarebbero vittime del patriarcato, intende «scoraggiare la prostituzione», legale ma non riconosciuta come lavoro, criminalizzandola in maniera indiretta e dando vita, così, a una serie di reati collaterali all’esercizio vero e proprio (dallo sfruttamento al favoreggiamento);
  3. Il neo-regolamentarismo (o legalizzazione), che vede Paesi come Germania, Svizzera e Olanda impegnarsi nella decriminalizzazione del sex work riconoscendolo come legale – pur se distinto dagli altri lavori – e attuando misure di regolamentazione, che, però, possono essere minime o massive (lasciando scoperte, per esempio, le persone migranti o i sex worker saltuari);
  4. Il cosiddetto “modello svedese”, adottato anche in Norvegia, Islanda, Canada e Francia e affine al proibizionismo, il quale si basa sull’assunto che vede la prostituzione come una violenza perpetrata dall’uomo nei confronti della donna e intende quest’ultima come vittima e soggetta a sfruttamento sessuale. Tale impianto legislativo mira, dunque, a eliminare il “fenomeno” eradicandone alla radice il motore: la domanda, ossia il cliente, criminalizzato e dissuaso dall’acquisto, severamente proibito.

E in Italia? Come abbiamo visto, il modello diffuso nel nostro Paese è quello di stampo abolizionista. Merito della legge attualmente in vigore, la numero 75 del 1958, meglio nota come legge “Merlin”, la quale si propone l’Abolizione della regolamentazione della prostituzione e [la] lotta contro lo sfruttamento della prostituzione altrui.

Proposta dalla senatrice Lina Merlin, la legge ha gettato il sex work in un vuoto legislativo, privandolo di diritti e norme adeguate. E corroborando un’idea cara all’abolizionismo e ai comparti cattolici: la prostituta è una vittima. Come spiega Giulia Zollino:

[…] Oltre a disporre la chiusura delle case di tolleranza e a introdurre i reati di favoreggiamento, sfruttamento, induzione, reclutamento e adescamento (penalizzato con la legge 689/1981), la Merlin prevedeva l’istituzione di patronati e istituti di rieducazione. Se formalmente lo scambio sessuo-economico tra persone maggiorenni e consenzienti non viene criminalizzato, nei fatti prostituirsi legalmente in Italia è difficile ed è molto comune essere accusat* di favoreggiamento e/o sfruttamento. Per non parlare poi delle innumerevoli ordinanze comunali che, per motivi di “decoro urbano” o “pubblica sicurezza”, multano clienti e sex worker, provocando una progressiva marginalizzazione del lavoro sessuale.

Femminismo e sex work

Le forme del sex work sono molteplici. Così come le cause che conducono a esercitarlo. Al di là della narrazione unica che vede le sex worker unicamente come vittime di tratta e sfruttamento, esiste, infatti, una varietà di condizioni e motori decisionali molto diversi alla base di tale professione: dalla necessità all’emporwement, dalla coercizione all’autodeterminazione.

Nonostante il fenomeno sia stratificato e irriducibile a un’unica forma, tuttavia, alcuni movimenti femministi proseguono nella loro avversione al sex work. Secondo la frangia “radicale” e “neoabolizionista”, infatti,

il lavoro sessuale – precisa Zollino – è l’espressione massima del patriarcato e le donne cisgender che lo esercitano sarebbero le sue ancelle. Interpretato esclusivamente come prodotto della disuguaglianza sociale, economica e politica tra i generi, il lavoro sessuale contribuirebbe alla sessualizzazione del corpo delle donne. Insomma, se una fa la puttana, non perde solo lei, perdono tutti, e il fatto che ci siano molte più puttane che puttani lo confermerebbe.

Naturalmente, tale visione del sex work si basa strenuamente sulla storia unica e mainstream diffusa a proposito della prostituzione, senza prendere in considerazione il potere decisionale rivestito dalla maggior parte dei sex worker, relativo sia alle strategie di autotutela, sia agli accordi stabiliti tra le parti e ai confini posti da chi vende i propri servizi.

In questo solco si inseriscono, quindi, le altre due visioni del femminismo a proposito del sex work: da un lato, vi è la corrente “sex radical”, per la quale il lavoro sessuale è espressione di emancipazione, libertà e sovvertimento dello stesso patriarcato; dall’altro, vi è il pensiero dominante nei movimenti tranfemministi, ossia quello che il sex work sia un lavoro a tutti gli effetti, basato su una scelta cosciente e sulla praticità: una possibilità professionale che, come tale, deve essere tutelata e difesa a livello legislativo.

Sex worker e pandemia

La situazione lavorativa già precaria dei sex worker è andata incrinandosi, come facilmente intuibile, con la pandemia da Covid-19.
Anche in questo caso, a provocare la maggior parte delle difficoltà è stata la mancanza di tutela nei confronti del lavoro sessuale. Come si legge su Rolling Stone, le/i sex worker si sono ritrovate/i costrette/i a continuare a lavorare in presenza anche nel corso dei vari lockdown – oltre che online –, perché privi di sussidi e aiuti economici da parte dello Stato. Rischiando, però, così gli effetti deleteri della militarizzazione delle strade, declinati in multe, sanzioni, controlli e avvertimenti delle autorità.

Come spiega Pia Covre, presidente e fondatrice, con Carla Corso, del Comitato per i diritti civili delle prostitute – nonché colei che, nel 1994, decise di adottare il termine “sex work” anche in Italia –

Le tensioni sociali nell’ultimo anno si sono acuite un po’ ovunque: molte lavoratrici e lavoratori sessuali, in mancanza di introiti, sono dovuti uscire per poter lavorare. Così si sono sommate le multe per violazione della quarantena e del coprifuoco, andando ad aggravare una situazione già precaria, se non drammatica. Ci sono persone che per poter mangiare e pagare l’affitto si sono indebitate con degli usurai. […] Tutto è bloccato per colpa di una macchina burocratica che stritola le persone e si ingolfa. E le persone migranti sono quelle più in difficoltà per via dei documenti che magari sono scaduti e non sono stati rinnovati, nonostante le proroghe previste dai DPCM.

Senza dimenticare la raffigurazione che ha fortemente colpito le/i sex worker nel corso della pandemia: quella che li ha dipinti come “untori” e tra i maggiori responsabili del contagio. Una nomea che deriva da tempi lontani e affonda le proprie radici nel ‘500, con il propagarsi della sifilide, per poi toccare il proprio culmine con l’HIV nel secolo scorso e, ora, con il coronavirus. Malattie e virus differenti, unica costante: la prostituzione come crogiolo di infezioni e veicolo prediletto di trasmissione.

Un’illazione che non fa che peggiorare i lavoratori sessuali, la loro figura sociale e lo stigma che li minaccia da secoli. E di fronte alla quale è ancora più importante unirsi al coro di voci che richiedono trattamenti dignitosi, tutele eque e giustizia: chi fa sex work è, prima di tutto, una persona, meritevole, come tutte le altre, di riconoscimento, rispetto e ascolto.

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