Spesso ciò che ci circonda, quello guardiamo o ascoltiamo, viene etichettato come “volgare”, ma che cosa significa davvero?

Me lo sono chiesta spesso e mi sono anche chiesta se questo avesse sempre e soltanto un’eccezione negativa, se fosse sempre qualcosa da cui fuggire a gambe levate.
Sono arrivata alla conclusione che il volgare può essere politico e che forse dovremmo fermarci ad analizzare più attentamente le cose.

Quando parlo di “volgare politico” non mi riferisco certamente alle misere e ripugnanti discussioni di chi fa politica e dovrebbe pensare al nostro bene, non mi riferisco al turpiloquio che prende vita ogni volta che si parla del DDL ZAN , parlo di altro, parlo di atto politico e sì anche essere volgare può essere un atto politico se si è parte di una categoria marginalizzata.

Alle donne da sempre viene detto come vestirsi, come parlare, come gestire le proprie emozioni, la propria sessualità e molto altro ancora, questa forma di controllo e dominio sul corpo femminile avviene da sempre e il terrore di non essere accettabile dalla società viene inculcato fin da subito, pensiamo a tutte quelle volte che “ma hai visto la gonna di quella quanto è corta?”; “non uscire così, cosa penserà la gente?”.

E questo è talmente radicato e normalizzato che fa sì che la domanda più frequente fatta a una donna che ha subito uno stupro sia “ma come eri vestita?” dando per scontato che con un certo outfit quelle cose tu te le stia cercando.

Alle categorie marginalizzate da sempre viene detto di nascondersi, di non farsi vedere, di comportarsi in un certo modo, di non alzare la voce, anzi di non prendere proprio la parola, per questo per le persone trans, grasse, disabili, non eterosessuali, non monogame, non bianche è importante riappropriarsi degli spazi.

Vestirci come vogliamo è un atto politico, parlare apertamente della nostra sessualità è un atto politico, dire le parolacce può essere un atto politico, sono tante piccole cose che scuotono un sistema, sono tante piccole cose che ci fanno riappropriare della possibilità di essere chi siamo e chi vogliamo essere, senza censure.

Ma qual è il metro di giudizio utilizzato per decidere cosa è volgare e cosa no?

Si fa riferimento a una morale condivisa da un società binaria e patriarcale basata sugli stereotipi di genere, è facile capire come ogni cosa che non rientri in quello schema venga etichettato come non valido, non credibile, non meritevole.

Torniamo alla nostra “gonna troppo corta”, chi ha deciso quale fosse la lunghezza appropriata? E cosa significa indossare una gonna più corta di quello che la società ci impone? Diventa volgare, non accettabile, una donna con quella gonna è sicuramente senza valori, senza principi, una poco di buono, una che non può avere voce in capitolo perché una così non può avere nulla di buono da dire.

Questo è applicabile a tutto, pensiamo a chi espone il proprio corpo sui social o a chi fa del sesso il proprio lavoro, non c’è scampo, è volgare, non ha valore.

Il punto della questione è quindi valutare la complessità della cose uscendo dagli stereotipi imposti da una società che ci vuole in silenzio, ci sono quindi tipologie diverse di volgare a mio avviso: quella vuota di contenuti, fatta di parole raffazzonate, gesti vacui di idee e poi c’è la volgarità sovversiva, che dà fastidio, che pianta le unghie sulla lavagna e crea quel rumore che fa accapponare la pelle, la volgarità di un’identità che non sta zitta e fa più rumore che può.

Ben venga allora questo tipo di eccesso, di sfarzo, di opulenza, ben vengano i diti medi alzati contro l’oppressore, i baci con la lingua dove non potremmo, le espressioni colorite come i nostri look, accogliamo questa volgarità come una leva pronta a spostare il confine un po’ più in là, sempre un po’ più in là.

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