"In Italia il carico dei figli è sulle donne", Barbara Cimmino di Yamamay

"Se non vogliamo arretrare ulteriormente, le aziende devono dotarsi degli strumenti per difendere le donne sul lavoro, sia in ambito familiare (perché è giusto che anche se tu sei a casa a lavorare, marito e figli riconoscano e rispettino i tuoi ambiti), sia in ambito d'ufficio (il datore che pretende troppo deve capire che necessariamente ci deve essere uno stacco, perché è umanamente impossibile lavorare in un perenne stato emergenziale)". Intervista a Barbara Cimmino, CSR Director di Yamamay.

“Non chiedere all’oste se il vino è buono” recita un vecchio adagio. A indicare che difficilmente chi ti vuole vendere qualcosa ammetterà i limiti del suo prodotto/ servizio.

Per questo le interviste a persone in ambiti istituzionali o aziendali rischiano spesso di essere autoreferenziali e parziali, più che per cattiva fede del intervistato o della intervistata perché fare impresa è anche questo: valorizzare i punti di forza e volgere a proprio favore (o se proprio non si può) nascondere i punti di debolezza. Compito del/la giornalista, in questi casi, è cercare di evitare quello che in gergo viene chiamata “marchetta”.

Un conto è il publiredazionale: articolo sponsorizzato che, nel rispetto delle regole giornalistiche, deve essere dichiaratamente tale.
Un conto è un’intervista, la cui finalità non è (o non dovrebbe essere) quella di realizzare una brochure aziendale, ma indagare argomenti di interesse con, nel caso della rubrica Women at Work, alcune protagoniste del mondo del lavoro.

Barbara Cimmino, CSR Director di Yamamay, invece, in questa intervista ci restituisce lo spaccato di uno brand riconosciuto a livello internazionale, onesto e consapevole di alcuni limiti.
Cimmino è disposta a condividerne alcuni perché aziendalmente interessata al confronto diretto e a trovare (o quanto meno interrogarsi su) possibili soluzione nel breve, medio e lungo termine.
Skill molto femminile, quella dell’autocritica costruttiva, che sta alla base dell’empatia e del problem solving che, i numeri lo dimostrano, caratterizzano e premiano le aziende trainate da donne; laddove gli uomini tendono più a mostrare i muscoli e una visione da copertina patinata (un po’ old style) del fare azienda.

Iniziamo da un tema che ci è particolarmente caro e parliamo subito di gender gap sul lavoro.
L’occupazione femminile ha un tasso inferiore al 50%.
Su 101 mila posti persi a dicembre a causa della pandemia, 99 mila erano occupati da donne, richiamate ai compiti di cura dalla chiusura delle scuole e prime a essere sacrificate dalle aziende (soprattutto se e quando interviene una maternità o per la stessa eventualità che possa succedere).
Ndr: dati ISTAT 2021
Qual è la situazione femminile in Yamamay e, soprattutto, esistono politiche per promuovere la parità di genere?

Yamamay ha circa 800 dipendenti, indicativamente l’85% è donna. Dico circa perché la parte retail è molto variabile e c’è grandissima rotazione.
Lavoro in un ambiente femminile e ho tre figli, quindi lo so bene: checché se ne dica, la genitorialità in Italia non esiste; esiste il carico della crescita dei figli che ricade sulle donne.
La pandemia ci ha fatto fare un passo indietro ulteriore, di 20 o 30 anni, penalizzando ancora di più le donne che, quando è andata bene, se hanno conservato il lavoro, si sono trovate con il sovraccarico dei figli da accudire sommato alle dinamiche non sempre virtuose dello smart working.

Fortunatamente negli ultimi 10 anni, il gruppo ha sviluppato programmi e strumenti di lavoro in remoto, perché abbiamo sempre avuto molte donne in viaggio.
Dal punto di vista tecnologico, quindi, eravamo pronti. Ma resta il problema del carico. Quindi stiamo studiando come regolamentare questa parte di lavoro da remoto, per aiutare le persone a trovare l’incastro migliore tra la parte tecnica e quella umana.
Per le aziende smart working significa rispettare gli orari di ufficio, scadenze, consegne pur stando a casa, senza considerare esigenze e problematiche di questa condizione. Invece, almeno in ambito corporate andrebbe adottato un lavoro a obiettivi e responsabilità che aiuti, soprattutto le donne, a organizzare meglio le giornate e a difendere il loro territorio nell’ambito lavorativo.

Poi è inutile nascondersi dietro a un dito: negli store la situazione è diversa. Lì non sono attuabili soluzioni di lavoro a distanza, il lavoro è fisico.

Quindi mi sta dicendo che le aziende devono (o dovrebbero) ripensare le modalità del lavoro?

Se non vogliamo arretrare ulteriormente sì. La parte giuslavorista deve entrare e cooperare con quella delle risorse umane. Bisogna dotarsi degli strumenti per difendere le donne sul lavoro, sia in ambito familiare (perché è giusto che anche se tu sei a casa a lavorare, marito e figli riconoscano e rispettino i tuoi ambiti), sia in ambito d’ufficio (il datore che pretende troppo deve capire che necessariamente ci deve essere uno stacco, perché è umanamente impossibile lavorare in un perenne stato emergenziale).

L’obiettivo 2021-22 è quello di regolare questo tipo di lavoro con un progetto che preveda parte contrattualistica e fattore “umano”.
Anche perché credo che non si tornerà più indietro e che si andrà incontro a un’alternanza fra casa e lavoro. Se strutturati correttamente è una grande occasione.

Tema femminismo. Negli ultimi anni la lotta femminista, che sembrava un po’ assopita, è diventata molto popolare e si sta combattendo su territori, come la body positivity e la real beauty, che riguardano molto da vicino il vostro settore e i vostri prodotti. Quando parliamo di intimo e costumi, infatti, parliamo di rappresentazione del corpo femminile.
Qual è stato l’impatto di questa rivoluzione che, non glielo nascondo, noi sosteniamo con forza in quanto necessaria?

Abbiamo una responsabilità. L’azienda è nata nel 2001 e l’idea di posizionamento di stile è sempre stata quella della sensualità tipica mediterranea, con tutte le caratteristiche sia fisiche che di attitude di questa iconografia.
Questo fino alla crisi finanziare del 2008-2010. I cambiamenti sociali e culturali vanno sempre di pari passo con quelli economici.
È stato, io credo, da quel momento in poi che abbiamo preso molta più consapevolezza di quello che stava avvenendo e su quanto fosse importante il tema dell’inclusività, con alcune evidenti e necessarie conseguenze di prodotto: a livello di taglie abbiamo aperto il nostro range e oggi siamo a 25 per i reggiseni, accoppiate tra taglie e coppa. Siamo stati il primo brand a farlo, ne andiamo ovviamente orgogliosi: a livello di progettazione abbiamo lavorato tantissimo avvalendoci del supporto razionale e scientifico dell’Università della Calabria e NTT Digital Group.

Lo sviluppo del prodotto non è andato di pari passo con l’allineamento dell’immagine, su cui abbiamo mandato segnali discordanti, un po’ replicando vecchi stereotipi, un po’ tentando goffamente una nuova comunicazione. Insomma, siamo bravissimi con il prodotto e a progettare reggiseni: lavoriamo con i medici della LILT, sappiamo cosa significa una stecca che dà fastidio, un ferretto che punta sul seno, abbiamo lavorato molto per eliminare tante componenti in eccesso e questo ci è tornato utile, a distanza di tempo, anche per il discorso della sostenibilità.

Il lavoro che dobbiamo fare adesso è mettere insieme questi due aspetti e far vedere quanto di buono e di bene abbiamo fatto sul prodotto.
La nostra linea Sculpt, fatta con un tessuto sensitive di Eurojersey, per esempio, è arrivata nel 2014. Abbiamo progettato body, reggiseno, leggings, slip di solo tessuto, togliendo tutto: elastici, stecche, ferretti. Innovazione pura e, a distanza di 7 anni, è la linea su cui facciamo più passi in avanti. Ma chi lo direbbe guardando la nostra comunicazione?

Resto in ambito femminismo e mi addentro nel territorio della rappresentazione del corpo femminile e della sessualizzazione. La liberazione della donna ha avuto un corrispettivo evidente nella storia della moda. È stato un liberarne letteralmente il corpo da obblighi (come quello delle gonne) e costrizioni: corsetti, stecche di balena, sottogonne, tacchi importabili, etc.
Siamo arrivati a una valorizzazione, ancora lontana dall’essere compiuta ma almeno avviata, non di un corpo ma dei corpi naturali e differenti, delle donne e non solo.
Pensiamo a quante ragazze, per esempio, oggi non portano neppure il reggiseno…  Del resto qualcosa si muove anche sul fronte dei generi: maschio o femmina non basta più.
Intimo, moda, make-up, prodotti mestruali riguardano persone trans e uomini, a prescindere peraltro dalla loro identità sessuale. Sul palco di Sanremo, spettacolo nazional-popolare italiano per eccellenza con tutti i limiti e gli stereotipi che ancora si porta dietro, abbiamo visto la portata di questo cambiamento in atto e di quanto sia importante, oggi, riconoscere la fluidità di genere.

Lo scenario sociologico è molto chiaro, anche perché ben rappresentato all’interno dei nostri stessi uffici: avendo un’età media giovane è inevitabile.
Io non penso neppure che questa fluidità di genere che stiamo osservando sia così tanto nuova, semmai ne stiamo prendendo coscienza sull’onda della spinta femminista, dell’agenda ONU 2030 e della crisi economica di cui sopra, che ha generato quello scenario in ebollizione da cui, inevitabilmente, uscirà un nuovo assetto sociale. Speriamo migliore.
A livello di prodotti lo sviluppo di prodotti “ibridi” è un’esigenza su cui tecnicamente abbiamo fatto e sappiamo di potere fare tanto per dare a tutte le persone la possibilità di scegliere indumenti che rispecchino la loro identità. A questo proposito a settembre lanceremo, in co-marketing con una startup sostenibile che si chiama ACBC, una linea di prodotti uomo/donna in tessuto sostenibile, aprendoci a un target più “green” in senso olistico, quindi anche in ambito sociale. La linea prevede, per esempio, uno slip parigamba da uomo reinterpretato per tutta la famiglia, e la modelleria ha ideato un indumento intermedio tra il boxer da uomo e lo slip da donna.
Credo che ora sia importante intervenire anche sulla formazione in store.
Le richieste ci sono, senza distinzione di generi, anche se sicuramente il target maschile è ancora reticente a entrare in negozio, preferendo più “nascondersi” dietro l’e-commerce.
Gli store devono diventare inclusivi e il personale formato in quest’ottica, per accogliere senza pregiudizi ogni persona, riconoscendone l’identità.

Tema sostenibilità. Quando si parla di green si pensa a microimprese virtuose, sicuramente non al fashion che è la seconda industria più inquinante al mondo.
Eppure mentre preparavo questa intervista ho scoperto che il Gruppo Pianoforte, cui fanno capo i brand Yamamay e Carpisa, ha presentato nel 2019 un Bilancio di Sostenibilità che mostra un’attenzione eccezionale al tema. Mi perdoni la franchezza, ma dal negozio e dal sito non si direbbe. L’utente finale come fa a saperlo?

Siamo in una fase rigenerativa del retail per cui, come ha evidenziato lei, c’è un’interesse per le aziende “piccole e virtuose”. 
Certamente non tutti i brand che ci sono oggi sopravviveranno a questa crisi strutturale, ma ne emergeranno di nuovi.
Per i brand come il nostro, non vecchi ma neppure nuovissimi, c’è difficoltà nel cambiare il proprio modo di raccontarsi senza perdere il fil rouge e, quindi, l’identità del brand.
Per i brand nuovi o di nicchia è più facile.

Se posso: così però c’è il rischio che un brand di nicchia passi per più sostenibile, pure in assenza di prove tangibili e solo per una buona narrazione; mentre Yamamay non venga colto in questo senso dal target sempre più attento a questo tema, nonostante l’impiego enorme di risorse per dare concretamente un assetto green al Gruppo.

Ha ragione. Ma a un’azienda internazionale sono richieste coerenza, accuratezza, trasparenza e perfetta aderenza fra quello che racconta e quello che veramente fa. 
Nel nostro storytelling la parte di sostenibilità è molto ma molto ridotta rispetto a quello che veramente facciamo. Al contrario alcune microimprese narrano più green di come sono in realtà. 
Noi non possiamo permetterci questo. I prodotti che definiamo sostenibili sono certificati tali. Il processo di lavoro deve esserlo, la sede stessa…
Siamo molto ma molto rigorosi dal punto di vista reputazionale e, sì, arrivati a questo punto c’è un’enorme gap tra quello che facciamo e quello che raccontiamo.
Diciamo che siamo più bravi a fare che a comunicarlo!

Chiudo con una domanda personale: nella sua carriera ha percepito sessismo nel luogo o nei rapporti di lavoro?

Mi considero e sono una super privilegiata, nel senso che lavorando in un’azienda di famiglia ho potuto, per esempio, crescere i miei figli con grande serenità, ho fatto maternità molto lunghe e non ho avuto gli impedimenti che altre donne possono e spesso hanno dopo una gravidanza.
Sull’altro piatto della bilancia, l’essere “di famiglia” in una realtà aziendale che comunque ha un board dirigenziale maschile, significa dover lavorare tanto su te stessa, significa che sono stata io a dover cambiare il contesto in cui sono, e creare il contesto che voglio. 

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