L’attenzione a tematiche ambientali o legate ai diritti civili negli ultimi anni è innegabilmente aumentata. Potremmo definirlo un risveglio di coscienze. Questo fenomeno non poteva non coinvolgere anche il marketing; legare l’immagine aziendale a tematiche sensibili è ormai una pratica all’ordine del giorno per le grandi aziende.

Ma quando un brand coinvolge l’attivismo nelle proprie campagne di advertising è sempre onesto, oppure potrebbe star facendo woke washing?

Woke washing: cosa significa?

Parlare di ‘risveglio’ in questo caso è quanto mai opportuno. Il woke washing, che Urban Dictionary definisce come l’utilizzo di temi di giustizia sociale per strategie di marketing, ha proprio a che fare con lo svegliarsi su determinati temi, che definiremmo caldi, utilizzandoli per fare leva sulla sensibilità del pubblico. Il termine ha un’accezione negativa e sottintende che le reali intenzioni dell’azienda potrebbero non essere poi così positive.

Proprio per questo motivo molti marchi che si sono impegnati nel brand activism sono stati accusati di essersi appropriati di alcuni valori etici al solo scopo di incrementare i guadagni, senza che le azioni fossero mosse da una reale convinzione. In alcuni casi, poi, le stesse aziende che propongono, tramite campagne pubblicitarie, una certa immagine, nascondono una storia di violazioni dei diritti e di passi falsi.

In definitiva, potremmo parlare del woke washing come di una macro-categoria generica che ingloba in sé altri fenomeni più conosciuti come il greenwashing (per le tematiche ambientali), il pinkwashing (per le questioni legate al femminismo) e il rainbow washing (per la comunità LGBTQIA+).

Alcuni esempi di woke washing

Quanti brand con l’arrivo del pride month appiccicano la bandiera rainbow sulle loro etichette? Tantissimi. Ma quanti fanno dell’attivismo un impegno personale e non solo una tecnica per vendere di più? Probabilmente pochi. Molto spesso, però, questo tipo di campagne promozionali insospettiscono i clienti e si rivelano controproducenti per il marchio.

È il caso di Pepsi e della pubblicità a sostegno delle proteste di Black Lives Matter con protagonista la modella Kendall Jenner. Lo spot vedeva Jenner nel corso di uno shooting fotografico nel pieno di una protesta pacifica. I manifestanti, con tanto di cartelloni con simboli della pace, si contrapponevano alla polizia pronta a intervenire per sedare la rivolta. Ma ecco che arriva Jenner che offrendo una bibita alle forze dell’ordine trasforma il corteo in una festa.

Lo spot è stato aspramente criticato per aver trattato un tema serio in maniera semplicistica ed è stato ritirato dopo 24 ore.

Un altro caso emblematico è quello del noto marchio di giocattoli Mattel. Il brand negli ultimi anni è stato accusato di usare a proprio vantaggio i temi della body positivity, promuovendo prototipi di bellezza non tradizionale attraverso la creazione di Barbie curvy. L’ondata di indignazione è partita proprio perché la Barbie viene ritenuta corresponsabile della diffusione di molteplici stereotipi legati alla bellezza femminile. A molti questa è parsa una mossa di marketing per ‘ripulirsi la faccia’.

Accusa simile per Gillette, che da qualche tempo ha improntato le sue campagne pubblicitarie sulla lotta alla mascolinità tossica. Per molti è ‘solo’ un modo per cercare di far dimenticare a tutti decenni di promo che, invece, quegli stereotipi sulla virilità hanno contribuito a rafforzarli.

Ma guardando al nostro paese, anche Chiara Ferragni e Fedez hanno ricevuto accuse di questo tipo. Ogni azione benefica della coppia più famosa d’Italia passa sotto il pungente giudizio degli utenti social. A ogni buona iniziativa riemerge uno scheletro dal passato; proprio dopo il discorso sul palco del Concertone del 1° maggio, infatti, in molti hanno riportato alla luce frasi omofobe presenti in canzoni passate del rapper milanese.

Rischi e conseguenze del woke washing

Quello relativo al woke washing è un discorso veramente complesso, perché ha a che fare con la valutazione delle intenzioni di un brand. Però, non possiamo affermare con certezza che queste intenzioni siano sempre negative. Bisogna tener conto del fatto che i tempi cambiano, le posizioni si evolvono, e anche grandi firme possono modificare le loro posizioni. Sta, infatti, al giudizio critico del cliente comprendere quando ci si trova davanti a un brand che fa del cause marketing il proprio stile di vita e quando, invece, si assiste a una performance di attivismo pigro.

Degli esempi che abbiamo elencato non possiamo dire che nessuno abbia contribuito alla causa. Essere un grande nome significa avere una grande risonanza pubblica e si può ricavare anche grande giovamento da questi cambi di rotta.

Tuttavia, forme di attivismo superficiale e poco sincero esistono e possono risultare dannose. Innanzitutto, come abbiamo già detto, per la credibilità del brand; ma anche per quella della causa stessa che rischia di perdere di fiducia agli occhi della gente. Così come si rischia di far perdere potenza al meccanismo stesso che permette a brand, realmente coinvolti dalle cause, di lanciare messaggi positivi, svuotando questo tipo di azioni di ogni significato.

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