Ogni anno numerose aziende statunitensi spendono circa 8 miliardi in corsi di formazione sulla diversità e l’inclusione. Il razzismo così come il sessismo e altre forme di discriminazione, però, non sembrano arrestarsi sui luoghi di lavoro.

Sembra quasi che corsi, programmi di formazione e nuove policy nell’ambito della razza e del genere nascano non tanto per smantellare la cultura della supremazia dell’uomo bianco, quanto per creare una facciata di diversity che tuteli gli interessi e i profitti aziendali.

In questo senso, per meglio comprendere il tema, ci sono utili due concetti introdotti dalla giurista afroamericana Cheryl Harris, ovvero, inclusione predatoria e inclusione performativa.

L’inclusione predatoria e la proprietà

Cheryl Harris ha coniato il termine inclusione predatoria per fotografare la condizione di numerose famiglie nere schiacciate da mutui accesi in virtù di un’uguaglianza economica e sociale mai raggiunta. In molti suoi scritti Harris parla della proprietà come strettamente correlata all’essere bianchi, ossia al privilegio sia dal punto di vista economico, che culturale, che sociale.

Nel sistema capitalistico spesso vengono offerte delle possibilità a esponenti di categorie svantaggiate, che poi si rivelano essere assolutamente di facciata. Una politica di inclusione vuota e che, molto spesso, aggrava anche la situazione economica di chi ne ‘beneficia’.

È il caso della politica abitativa messa in campo dal governo federale degli Stati Uniti a cavallo tra gli anni Sessanta e Settanta del secolo scorso. Con lo scopo di sedare possibili rivolte, infatti, furono lanciati una serie di programmi che promettevano sovvenzioni per l’acquisto di case da parte della comunità afroamericana. Ben presto, però, questi programmi diventarono più una fonte di arricchimento per il settore immobiliare, che un modo per porre rimedio a disuguaglianza e segregazione.

Keeanga-Yamahtta Taylor racconta nel suo libro Race for Profit che questi programmi furono delle vere e proprie truffe.

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Le case disponibili all’acquisto erano limitate a determinati quartieri e, spesso, erano fatiscenti. Non solo ci si approfittò di povere famiglie disperate, facendo passare delle manovre di interesse economico come pratiche di inclusione; ma questi programmi contribuirono ad acuire la ghettizzazione (visto che gli afroamericani avevano accesso alle abitazioni solo in alcuni quartieri) e l’associazione tra persone nere e degrado.

Le politiche di inclusione performativa

Possiamo immaginare questo fenomeno specifico dell’inclusione predatoria come parte di un sistema più grande e generale che risponde al nome di inclusione performativa. Molto spesso in concomitanza con lo scoppio di polemiche o di tragedie, come è stato nel caso dell’omicidio di George Floyd e di Black Lives Matter, molte aziende si risvegliano e scoprono interesse per l’equality e per il sostegno dei diritti delle categorie marginalizzate.

Si tratta di un tipo di interesse del tutto fittizio e forzato dalle circostanze. L’unico interesse che si cela dietro politiche di questo genere è quello economico. L’obiettivo è, spesso, ripulirsi la faccia per una condotta passata poco inclusiva o semplicemente seguire la scia di un tema caldo per ricavarne un profitto.

Se, però, evitare che la propria azienda subisca ripercussioni per comportamenti poco inclusivi diviene più importante di creare realmente un ambiente di lavoro propositivo e aperto; allora il problema non solo non si risolve, ma si ingigantisce.

I rischi di un’inclusione fittizia

Dichiararsi alleati di una causa in cui non si crede, infatti, non solo non è di nessun aiuto a chi solitamente subisce discriminazioni, ma tende a peggiorare la loro condizione. Non riflettere sulla natura profonda dei problemi e sulle loro cause impedisce il cambiamento. Questo tipo di inclusione privo di qualsivoglia convinzione ideologica mantiene lo status quo delle cose e impedisce un lavoro concreto contro razzismo, sessismo e altre discriminazioni strutturali.

Questo atteggiamento rischia di allontanare dalla causa anche chi la sostiene con convinzione. Infatti, in un contesto aziendale, la paura di ripercussioni può essere un deterrente anche per coloro che vorrebbero supportare attivamente la lotta alla discriminazione e che, non facendolo, diventano parte di un problema sistemico.

Solo con l’impegno attivo ci si può discostare da un sistema culturale impregnato di sessismo e razzismo. Questo, ovviamente, richiede diversi livelli di complessità. In caso contrario, si rischia di perpetuare l’idea che dichiararsi a sostegno di una causa sia sufficiente, anche sei poi, nei fatti, non si compie alcun cambiamento.

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