Cos'è il paradosso del dilemma del prigioniero e cosa c'entra con noi donne

Esempio per eccellenza della Teoria dei giochi, il "dilemma del prigioniero", per la sua versatilità e la sua chiarezza, può essere applicato allo studio di qualsiasi ambito sociale. Compresi il femminismo e le questioni di genere.

Ogni giorno, nelle piccole o grandi questioni della nostra esistenza, ci troviamo di fronte a un dilemma: perseguire i nostri interessi individuali o cooperare con gli altri membri della società?

Nella Teoria dei giochi, questa dicotomia critica ha un nome preciso: dilemma del prigioniero. Estremamente versatile e intuitivo, quest’ultimo può essere applicato a qualsiasi ambito della vita comunitaria, offrendo stimolanti spunti di riflessione circa il nostro modo di relazionarci nei differenti contesti di gruppo.

Facciamo un esperimento mentale. Una persona (A) sale su un tram nell’ora di punta serale, accomodandosi tra la folla di persone che, con lei, occupano lo spazio angusto. Ha con sé un biglietto, l’ultimo del suo carnet, ma, per precauzione in vista di eventualità future, decide non di obliterarlo: «lo farò solo nel caso in cui vedrò salire i controllori», si dice rassicurandosi.

Con la coda dell’occhio, però, nota che la persona (B) salita insieme a lei, alla medesima fermata, convalida il proprio biglietto con prontezza e senza ripensamenti. Il senso di colpa inizia a proliferare, ma la persona (A), incurante della palese disparità di atteggiamento, prosegue nel suo comportamento iniquo.

La persona (A) e la persona (B), dopo una decina di fermate, si ritrovano di fronte alla porta, pronte per scendere. I controllori non sono saliti, pertanto (A) ha risparmiato il biglietto, mentre (B) l’ha obliterato – apparentemente – senza senso. Se tutti ragionassero come la persona (A), tuttavia, le compagnie di trasporto fallirebbero nell’arco di poco tempo e l’evasione diverrebbe la condotta tipica di tutti i passeggeri.

La persona (A), infatti, si è trovata di fronte a una sfumatura del “dilemma del prigioniero”: “tradire” gli altri viaggiatori, non convalidando il proprio biglietto e agendo furbescamente, o “cooperare” con essi, apportando il proprio contributo e rispettando quanto richiesto per compiere legalmente la tratta?

Per saperne di più, vediamo che cosa ci dice la Teoria dei giochi.

Che cos’è il dilemma del prigioniero?

Il dilemma del prigioniero è forse l’esempio più classico addotto dalla Teoria dei giochi, la branca della matematica che studia il modo in cui gli individui prendono decisioni nel momento in cui interagiscono con gli altri, indagandone le strategie e le soluzioni prescelte al fine di ottenere il massimo vantaggio possibile.

Formulato nel 1950 dai matematici della RAND Corporation Merrill Flood e Melvin Dresher e, poi, ripreso e ufficializzato da Albert William Tucker, il dilemma si inserisce nella categoria dei “giochi non cooperativi”, ossia quelli che, a differenza dei “giochi cooperativi”, non prevedono la possibilità di accordo preventivo ed elaborazione di strategie congiunte e funzionali tra i giocatori coinvolti.

Lo scenario proposto dal dilemma del prigioniero, quindi, è, come riporta Polymath, il seguente:

Due sospettati, A e B, sono arrestati dalla polizia. La polizia non ha prove sufficienti per trovare il colpevole, e, dopo aver rinchiuso i due prigionieri in due celle diverse, interroga entrambi offrendo loro le seguenti prospettive: se uno confessa (C) e l’altro non confessa (NC), chi non ha confessato sconterà 10 anni di detenzione, mentre l’altro sarà libero; se entrambi non confesseranno, allora la polizia li condannerà a un solo anno di carcere; se, invece, confesseranno entrambi, la pena da scontare sarà pari a 5 anni di carcere. In ogni caso, però, nessuno dei due sospettati potrà conoscere la scelta fatta dall’altro.

Come agire? Osservando la questione da un’ottica meramente individualistica, la scelta ottimale per entrambi sarebbe confessare: nella migliore delle ipotesi, gli anni da scontare saranno pari a 0, nella peggiore, 5. Secondo la Teoria, questa soluzione costituirebbe, infatti, la cosiddetta “strategia dominante”, in quanto considerata vantaggiosa indipendentemente da ciò che compie l’avversario.

Sorgono, però, delle problematiche.

Il paradosso del dilemma del prigioniero

L’accusa vicendevole, come abbiamo visto, sarebbe la meno rischiosa. E garantirebbe anche quello che è stato definito “equilibrio di Nash”, dal nome del matematico e premio Nobel, John Nash appunto, che diede un contributo essenziale alla Teoria dei giochi e alle sue evoluzioni.

In base all’equilibrio di Nash, i due prigionieri adotterebbero un comportamento razionale e utile alla loro stretta cerchia sociale, perché quest’ultimo consentirebbe di ottenere qualcosa che rientra nell’interesse di entrambi i partecipanti coinvolti.

Tale opzione, tuttavia, solletica immediatamente un paradosso: se la scelta di confessare, quindi tradire e non collaborare, sarebbe quella meno pericolosa a livello individuale, da una prospettiva collettiva il non parlare garantirebbe la pena minore di tutte (1 anno contro 5 o, addirittura, 10) e, soprattutto, un atteggiamento paritario e solidale.

Peccato che uno scenario di questo tipo non sarebbe mai realizzabile. Sebbene la scelta confessare-confessare conduca a una “razionalità fittizia”, infatti, anche nel caso in cui i due prigionieri si accordassero sulla condotta comune di non confessare, nessuno avrebbe la garanzia che l’altro agirà effettivamente così. Anzi, ciò potrebbe indurre persino uno dei due a tradire, assicurandosi, così, la totale libertà.

Dilemma del prigioniero: soluzioni e strategie

dilemma del prigioniero
Fonte: Pexels

Affinché i due sospettati accolgano l’opzione meno egoista, sarebbe necessario che entrambi avessero una «capacità logica pressoché perfetta», tale da condurli a compiere la medesima scelta, ossia la più vantaggiosa in una prospettiva di cooperazione.

Se entrambi adottassero un ragionamento logico, ne deriva, quindi, che l’unica decisione possibile sarebbe quella di non confessare, stabilizzando, così, il periodo della detenzione a 1 anno ciascuno. In questo caso, si raggiungerebbe il cosiddetto “ottimo paretiano”: la condizione in cui nessun giocatore può migliorare la propria situazione, se non a scapito dell’altro.

Ma è davvero così semplice? Naturalmente, no. Per approfondire le implicazioni del dilemma del prigioniero, sono state studiate, nel corso dei decenni, soluzioni e strategie alternative. Una di queste è il “dilemma reiterato”, ossia la ripetizione del gioco per un numero indefinito di volte.

In tale scenario, i due giocatori verrebbero a conoscenza della scelta dell’altro alla conclusione di ogni prova, ma, data l’indefinitezza del numero delle partite, l’equilibrio iniziale sarebbe soggetto a mutazioni imprevedibili, dimostrando il vantaggio di un’eventuale collaborazione sul lungo termine.

Un’altra tattica non cooperativa è la “trigger strategy” (“strategia del dito sul grilletto”), in base alla quale, sempre nell’ambito di un gioco reiterato, quando uno dei due giocatori non rispetta il patto di collaborazione (defezione), l’altro lo punisce violandolo egli stesso e, dunque, punendolo.

Le declinazioni di tale strategia sono molteplici. Tra le più note, si annoverano:

  • la “tit for tat” (“occhio per occhio”), in cui la punizione dura fintanto che il giocatore che ha violato per primo il patto prosegue nella sua defezione. Quando questi torna a cooperare, il castigo cessa;
  • la “tit for two tat”, dove la punizione dura qualche turno in più rispetto a quello immediatamente successivo al tradimento, e termina quando il giocatore scorretto mantiene un comportamento solidale per più mosse consecutive;
  • il “grim trigger”, nel quale il castigo può durare indefinitamente nel tempo, anche nel caso in cui il giocatore che ha deviato per primo dal patto di collaborazione dovesse tornare a cooperare.

Scopo della “trigger strategy” è quello di incentivare la cooperazione tra le parti, i cui vantaggi risultano evidenti sul lungo termine e solo a turni ripetuti. Chi non rispetta l’accordo, infatti, sa di andare incontro a punizione certa.

Un po’ come accade nelle nostre vite, al di fuori di giochi e strategie.

Il dilemma del prigioniero e le sue applicazioni

Per il suo impianto strutturale semplice e versatile, il dilemma del prigioniero è spesso utilizzato per inquadrare anche fenomeni appartenenti a contesti dissimili rispetto a quello della Teoria dei giochi. La costante, infatti, è sempre la stessa: la necessità di fronteggiare strategie e soluzioni tra loro diverse, conducendo un ragionamento sulla scelta maggiormente ottimale da assumere.

Per questo motivo, il dilemma ha prestato i suoi modelli di studio alle discipline più diverse, dall’economia alla politica, dalla sociologia alla biologia, rivelando, così, la sua importanza a livello comunitario.

Negli anni ‘50, per esempio, il dilemma del prigioniero, nella sua forma originale, è stato adoperato per spiegare la corsa agli armamenti da parte degli Stati Uniti d’America e dell’Unione Sovietica, nel colmo della Guerra fredda che li vide coinvolti. Il bivio consisteva in: armarsi o non armarsi. Per entrambe le nazioni, proprio come nel caso dei due sospettati, la decisione più vantaggiosa fu rappresentata dall’incremento del proprio arsenale nucleare, al fine di minimizzare i rischi e non subire l’attacco nemico, nonostante l’enorme dispendio di energie delle due superpotenze.

Un altro campo di applicazione è, poi, l’economia, dove la scelta di cooperare o tradire può riguardare due imprese (in ambito di maggiori o minori profitti), un’impresa e un consumatore (rapporto qualità/prezzo) o, ancora, un creditore e un nuovo debitore (per quanto riguarda la concessione del credito e l’eventuale restituzione del debito).

Ma non sono esenti dal dilemma del prigioniero neanche contesti quali lo sport, il rispetto delle norme sociali (dalle violazioni del codice della strada a, come accennato, un semplice biglietto del pullman) o la biologia. Un caso, in quest’ultimo senso, è offerto dalle stesse restrizioni da Covid-19: nel corso dell’ultimo anno, infatti, alcuni individui si sono spesso trovati di fronte alla scelta di rispettare (quindi “collaborare”) le prescrizioni o, al contrario, trasgredirle.

Come riporta il sito Economia Comportamentale, ogni decisione ha le sue conseguenze, e ciascuna scelta individuale sarà inevitabilmente connessa a quella delle altre persone. Infatti: se nessuno coopera, il contagio non si arresta e prosegue indisturbato; se tutti collaborano, i rischi diminuiscono drasticamente e i malati possono ricevere le cure adeguate; ma se alcuni cooperano e altri no, creando, così, una condizione di disequilibrio, i secondi si tramuteranno in “free rider” e trarranno, quindi, profitto dai primi. Alimentando, così, la catena del contagio e diminuendo l’impatto benefico dei sacrifici compiuti da chi rispetta le regole.

Dilemma del prigioniero: questioni di genere e femminismo

In ultimo, ma non per importanza, il dilemma del prigioniero può essere impiegato anche per indagare le problematiche relative alle questioni di genere e al femminismo.

Nello specifico, il dilemma rende ancora più evidente la sostanziale condizione di inuguaglianza e iniquità che colpisce le donne contemporanee. “Prigioniere” di presupposti patriarcali e sessisti, esse si dimostrano inclini, nella maggior parte dei casi, a un atteggiamento improntato alla cooperazione e alla solidarietà, anche quando, come si legge su Cosmopolis, è quasi certo che il partner perseguirà i propri interessi egoistici e deciderà di “tradirle”, eludendo la collaborazione.

Tale asimmetria è palese non solo nei rapporti di affetto, ma anche a livello sociale e lavorativo. Rientrano, infatti, in questo filone la scarsa accessibilità a posizioni apicali (il cosiddetto glass ceiling), le difficoltà a coltivare la propria carriera professionale, la costante ripartizione tra casa e lavoro (e il conseguente, ed esagerato, carico mentale), il gender pay gap, gli abusi di potere e, in generale, tutte le imposizioni derivanti dalle pretese sociali di genere che ancora inquinano le nostre quotidianità.

Le donne possono smettere di “collaborare” con questo sistema prevaricatore o possono permettersi di “tradire” le aspettative e deviare da quell’implicito, ma insidioso, patto di cooperazione che, da sempre, regola il rapporto con il comparto maschile?

Una “strategia”, soprattutto per quanto concerne le relazioni d’amore, sembra averla offerta la filosofa statunitense Jean Hampton, che nel suo Hobbes and the Social Contract Tradition ha fatto riferimento proprio alla Teoria dei giochi per delineare la fisionomia della battaglia tra i sessi e, in particolare, la dinamica della “cooperazione non ricambiata”, in cui uno dei due membri – la donna – risulta essere sempre “preda” dell’altro.

Il discorso, qui solo accennato, sarà, poi, ripreso in Feminist Contractarianism, in cui emerge per la prima volta l’idea del “test contrattualistico”: un espediente per valutare i rapporti affettivi tra uomini e donne e sottolinearne le eventuali disparità, per poi correggerle e indirizzarle verso una maggiore uguaglianza tra le parti.

Ciò che è apparso lampante a Jean Hampton è stato, soprattutto, l’imperativo dell’etica della cura che ingabbia le donne, tese, “per natura”, a canalizzare le proprie energie sulla dedizione nei confronti del marito e dei figli, rinunciando, così, alle proprie carriere, ai propri interessi e alle proprie ambizioni. Una “forma di asservimento socialmente accettata” altamente presente ai tempi del saggio (il 1992) e, purtroppo, ancora persistente e deleteria, per il suo carattere tuttora insidioso e pervasivo.

Affinché il “test contrattualistico” funzioni, però, proprio come nel dilemma del prigioniero è necessario supporre che le due parti siano “decisori pienamente razionali” e consapevoli del proprio valore intrinseco. Solo così, infatti, è possibile individuare le tracce di ingiustizia e compiere scelte volte al benessere di uomini e donne coinvolti, appianando i dislivelli e le subordinazioni non desiderate.

Secondo Hampton, infatti, il dilemma delle donne è pressoché unilaterale: esse si ritrovano costrette – dalla società, dai retaggi culturali, dai propri compagni – a cooperare all’interno della coppia/famiglia, ma a pieno appannaggio di uno solo dei membri, e non del gruppo. In sintesi: le donne sono maggiormente propense alla collaborazione, ma non ne traggono alcun vantaggio, anzi, operano al fine di facilitare i propri partner nella realizzazione dei loro desideri, e mai dei propri.

In questa prospettiva – sempre facendo ricorso al dilemma del prigioniero –, gli anni di carcere delle donne non sarebbero solo dieci, ma si tramuterebbero in un vero e proprio ergastolo.

Quali tattiche adottare, quindi? È forse giunta l’ora che le donne, considerata la palese disuguaglianza di genere ancora in vigore, inizino ad allentare la tendenza – imposta o interiorizzata – alla cura e alla cooperazione, elaborando nuovi modelli per raggiungere l’equità sul lavoro, nelle relazioni di coppia e nella società.

Smettiamola di essere prigioniere. E godiamoci la libertà.

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