A scuola le ragazze tendono in media ad affermarsi maggiormente rispetto ai ragazzi, con migliori risultati e voti più alti, ma quello che si nota è che questo vantaggio scompare quasi del tutto quando si entra nel mondo del lavoro.

Stando ai dati del consorzio universitario Almalaurea, relativi all’anno 2019, le donne rappresentano il 58,7% del totale dei laureati, quindi più della metà, e raggiungono in media un punteggio finale superiore a quello dei colleghi maschi: 101,1 contro 98,6.

Questa situazione viene però smentita dallo scenario attuale, dove le percentuali maggiori di occupazione, i ruoli di potere e gli stipendi più consistenti sono riservati agli uomini, nonostante, come abbiamo appena visto, i laureati uomini siano in numero inferiore rispetto alla controparte femminile. Risulta eloquente in questo senso, la frase di Carol Dweck, professoressa di psicologia a Stanford che così recita: “Se la vita fosse una lunga scuola elementare, le donne sarebbero le dominatrici indiscusse del mondo”. Ma purtroppo così non è, e la realtà e i numeri di oggi ce lo confermano.

La cosa, poi, si fa ancora più evidente per certi percorsi scolastici e settori professionali, quelli delle cosiddette materie STEM (Science, Technology, Engineering and Mathematics). Le ragazze iscritte ai corsi STEM – che in Italia sono solo il 37% – sebbene raggiungano risultati accademici più elevati presentano tassi di occupazione e retribuzioni più basse rispetto agli uomini. Facciamo un esempio con dati concreti: le laureate donne in Ingegneria che completano gli studi sono il 50% contro il 48% dei colleghi maschi, e ottengono in media un punteggio finale superiore rispetto a questi ultimi: 107,3 contro 106,4.

A un anno dalla laurea, succede però questo: il tasso di occupazione degli uomini laureati nei corsi STEM è maggiore di quello delle donne (91,8% contro 89,3%) e lo è anche la retribuzione – siamo in media di fronte a una retribuzione mensile netta di 1.510 euro per gli uomini e 1.428 per le loro controparti femminili.

Questa situazione è certamente in buona parte dovuta alla cultura patriarcale e alle dinamiche maschiliste che da tempo perpetua e continua a legittimare, ma al fianco di un sistema socio-economico maggiormente costruito su misura e a vantaggio degli uomini, ci sono anche delle motivazioni di carattere psicologico e di derivazione culturale, che hanno a che fare con la percezione che le donne hanno di sé e del proprio valore. Stiamo parlando del confidence gap.

Cos’è il confidence gap?

Per confidence gap, letteralmente “divario di fiducia”, si intende la tendenza, prettamente femminile, a sottostimare le proprie competenze e capacità che sfocia in mancanza di fiducia e si traduce nei fatti in minori opportunità professionali e in posizioni lavorative meno ambiziose e remunerate. È dunque, insieme alle ragioni strutturali e ai modelli culturali basati sul gender gap tratteggiati in apertura, un criterio fondamentale alla base di quello scollamento tra il successo scolastico delle ragazze e le effettive possibilità future dal punto di vista professionale.

Vediamolo subito attraverso alcuni semplici dati. Secondo i rapporti forniti da Save The Children, tra gli studenti con alto rendimento nelle materie scientifiche, solo 1 ragazza su 8 si aspetta di lavorare come ingegnere o in professioni STEM, a fronte di 1 su 4 tra i maschi. E a parità di competenze, le donne laureatesi nelle materie scientifiche tendono a mostrare meno sicurezza rispetto ai colleghi maschi, una falso pregiudizio che le trattiene dall’inseguire le migliori posizioni lavorative e le spinge a ricercare lavori meno competitivi e meno pagati.

Eppure, evidenze dimostrano che la fiducia risulta essere un criterio fondamentale al pari della competenza, se non addirittura dalla maggiore rilevanza ai fini del raggiungimento di obiettivi e successi. Lo confermano le giornaliste Katty Kay e Claire Shipman che hanno riconosciuto proprio nella mancanza di fiducia in se stesse, l’ostacolo principale all’avanzamento professionale delle donne:

Gli uomini sottoqualificati e impreparati non ci pensano due volte a proporsi ed incitarsi. Troppe donne, più qualificate e più preparate, si trattengono ancora. Le donne si sentono sicure solo quando sono perfette.

Lo conferma anche la psicologa Lisa Damour, che riconosce la presenza di queste dinamiche già durante l’infanzia e la prima adolescenza. Stando a quanto riportano molti dei genitori dei pazienti della psicologa, sono di norma diversi gli approcci allo studio da parte dei due generi: se gli studenti maschi tendono a dedicarsi allo studio in modo più tranquillo e moderato, le femmine mostrano in media una maggiore severità e tendono a non concedersi errori e imperfezioni, un aspetto che nel tempo le porterà a sviluppare una maggiore insicurezza e la falsa convinzione di non poter contare sulle proprie capacità.

Ecco perché, come ritiene Paola Mascaro, presidente di Valore D – la prima associazione di imprese che promuove l’equilibrio di genere e una cultura inclusiva – di fronte a questo scenario risulta fondamentale “promuovere un cambiamento culturale che parta dalle scuole e dalle famiglie, e che insegni alle bambine e alle ragazze non a essere perfette e adeguate a un mondo di uomini, bensì a sperimentare, a sbagliare e ad accettare l’errore, cioè quei valori che rendono efficace il metodo scientifico”.

Confidence gap: gli effetti negativi

Come abbiamo visto, la scarsità di fiducia si traduce in minori opportunità. E sono molte le conseguenze negative che il confidence gap determina nella vita personale e professionale delle donne, ma anche nell’intero sistema economico globale. Vediamo le principali:

  • pur eccellendo, le donne tendono a prediligere percorsi scolastici e di carriera meno ambiziosi e remunerativi, scegliendo, ad esempio, con maggiore frequenza gli ambiti del marketing e delle risorse umane rispetto a quelli tecnico-scientifici dal più alto tasso occupazionale. Ma anche all’interno degli stessi corsi STEM, sono maggiormente propense a scegliere quelli che fanno registrare tassi di occupazione e retribuzioni più basse rispetto, ad esempio, a Ingegneria.
  • una scarsa fiducia nelle proprie potenzialità riduce poi le loro possibilità di carriera, di guadagno e il conseguente tenore di vita. Giusto per fare un esempio, le donne tendono a fare domanda per una promozione solo quando credono di soddisfare il 100% delle qualifiche richieste per quel lavoro, a differenza degli uomini che in media si candidano quando pensano di poter soddisfare il 60% dei requisiti richiesti. È quanto è stato scoperto anni fa dalla multinazionale statunitense dell’informatica Hewlett-Packard, quando stava cercando di incrementare il numero di donne nelle posizioni di top management. Non solo, gli uomini tendono a iniziare le negoziazioni salariali quattro volte più spesso delle donne, e queste ultime, quando lo fanno, chiedono in media il 30% in meno rispetto agli uomini. A sostenerlo è Linda Babcock, professoressa di economia alla Carnegie Mellon University in seguito a degli studi effettuati su studenti di business school.
  • si creano ambienti professionali poco virtuosi che non sfruttano le potenzialità delle donne e non traggono adeguato vantaggio dal loro apporto, riconosciuto come fondamentale ai fini di una migliore crescita economica su scala globale. Secondo uno studio del 2015 condotto dalla multinazionale di consulenza strategica McKinsey&Company, dal titolo Why Diversity Matters, la aziende che premiano la diversità e vedono al loro interno una maggiore presenza femminile nei ruoli manageriali presentano il 15% di probabilità in più di registrare fatturati superiori alla media nazionale.

Il gender confidence gap

Come abbiamo visto il confidence gap è ancora una volta una questione di genere. Sono infatti le donne in misura maggiore a introiettare questa tendenza a un’auto-percezione per difetto che le porta a sottostimare le proprie capacità e a credere di meritarsi meno di ciò a cui possono aspirare. Come accennato in precedenza, questa disparità deriva da fattori tipo strutturale, ma anche da questioni culturali, che riguardano l’educazione e la società, e persino da ragioni biologiche.

Per quanto si tratti di materia ancora oggetto di ricerche e indagini, si riconoscono delle differenze nella struttura e nella chimica dei cervelli maschili e femminili, che potrebbero influenzare modelli di comportamento e anche il campo della fiducia.

Alcuni studi sostengono che le donne tendono ad attivare l’amigdala, la parte del cervello deputata alla gestione delle emozioni, in particolare della paura, in maniera più facile rispetto agli uomini in risposta a stimoli emotivi negativi, arrivando così ad avere maggiori probabilità di formare forti ricordi emotivi di eventi negativi. Questo le porterebbe ad una maggiore analisi delle situazioni e calcolare rischi maggiori, un aspetto che può anche diventare un vantaggio per valutare con lucidità eventuali errori e minacce all’orizzonte.

Insieme a questo, ci sono poi differenze ormonali che possono agire sulle diverse modalità comportamentali. Gli estrogeni, ormoni femminili, sembrerebbero poi incoraggiare i legami e la connessione e scoraggiare il conflitto e l’assunzione di rischi, tendenze che potrebbero anche ostacolare la fiducia in alcuni contesti. Al contrario, il testosterone, l’ormone maschile, aiuterebbe invece ad alimentare la fiducia e l’assunzione di rischi.

Ma ben più potenti sono i condizionamenti sociali e culturali cui sono soggette da sempre le donne. Negli anni si è infatti consolidato un pregiudizio che, specie sul posto di lavoro e in ambito professionale, vedeva le donne assertive e sicure di sé come sconvenienti e fuori luogo, aggressive e presuntuose, cavalcando quell’altro pregiudizio millenario che le voleva materne, emotive ed eternamente accondiscendenti.

Risulta piuttosto evidente come di fronte a questo scenario, quasi darwinianamente, si sia sviluppato per istinto di sopravvivenza sociale un atteggiamento ben più modesto e meno sicuro, che ha però alimentato ulteriormente quel divario di genere già in atto per via di molti altri fattori.

Lo conferma anche Laura Guillen, professoressa associata nell’Esade, un’istituzione educativa all’interno dell’Università Ramon Llull, a Barcellona:

Mentre la fiducia in se stessi è neutrale rispetto al genere, le conseguenze dell’apparire sicuri di sé non lo sono.

Secondo la ricercatrice, le donne che manifestano fiducia in se stesse sono spesso viste come arriviste e spregiudicate, e sono penalizzate se “non temperano la loro aggressività con la gentilezza”, perché da loro ci si aspettano maggiormente qualità legate ad altruismo e collaborazione, cura e preoccupazione per gli altri, mentre risulta naturale per la controparte maschile manifestare desiderio di successo, ambizione e voglia di affermazione.

Confidence gap: come superarlo?

A differenza degli ostacoli strutturali ben più difficili da modificare in breve tempo, anche a causa di dinamiche radicate che resistono da tempo, può risultare più semplice sotto certi punti di vista agire su comportamenti culturali che possano influenzano positivamente la psicologia femminile, già a partire dalle primissime fasi di infanzia e prima adolescenza.

  • In primo luogo, genitori e insegnanti possono cercare di evitare di elogiare l’approccio eccessivamente perfezionista e meticoloso che si riscontra in molte bambine – ma anche in alcuni bambini maschi – anche se questo li porta ad ottenere ottimi voti. Può essere un atteggiamento utile, specie nei primissimi anni di studio, per spingerli a mostrarsi fieri di sé e soddisfatti di buoni risultati, senza aspirare alla perfezione, contribuendo a formare in loro una maggiore autostima che li aiuterà in futuro a mettersi maggiormente alla prova e a temere meno errori e sconfitte.
  • Promuovere sin dall’infanzia programmi educativi mirati a sradicare i classici stereotipi di genere e contribuire a modificare la mentalità culturale a oggi prelevante, che si fonda e porta alla ghettizzazione dei ruoli e delle future carriere. Si pensi che già a 6 anni i bambini classificano le le attività come maschili e femminili e il che il 57% degli insegnanti e il 52% dei genitori ammette di avere degli stereotipi di genere inconsapevoli.
  • Sempre nell’ottica dell’abbattimento dei cliché di genere, può rappresentare un aiuto efficace chiamare a testimonianza nelle scuole figure professionali femminili che hanno avuto successo e che possono diffondere e condividere atteggiamenti virtuosi, in grado di ispirare le giovani e incoraggiarle a seguire le proprie aspirazioni professionali, libere da condizionamenti, aiutandole così a sviluppare in loro consapevolezza del proprio talento e potenziale e liberandole dagli stereotipi di genere che frenano la loro ambizione. L’80% dei giovani immagina il proprio futuro ispirandosi a dei modelli, selezionare i giusti modelli da sottoporre alla loro attenzione può contribuire in modo considerevole a determinarne le scelte e le inclinazioni future. A questo proposito, segnaliamo il progetto InspirinGirls, lanciato da Valore D in collaborazione con ENI, Intesa Sanpaolo e Snam, che porta nelle scuole medie role model donne, provenienti da settori e professioni diverse, perché possano diventare esempio e ispirazione per le giovani generazione.
  • L’ispirazione a role model dovrebbe diventare un’abitudine virtuosa che guidi le donne in tutto il loro percorso professionale, sostenendo a loro volta nel tempo le colleghe più giovani e contribuendo a diffondere una nuova sensibilità culturale che faccia del gender gap una realtà sempre più innocua e inconsistente. Perché questo accada è anche fondamentale che le donne imparino a fare networking, a condividere, confrontarsi e supportarsi per crescere insieme e abbattere reticenze e pregiudizi inconsci e spesso latenti.
  • Non possiamo però dimenticare l’enorme contributo che le aziende possono mettere in campo, per smantellare la confidence gap e creare ambienti maggiormente inclusivi che cessino di perpetuare il gender gap e promuovere le carriere maschili. In questo senso, un comportamento virtuoso che le imprese possono adottare è quello di non lasciarsi influenzare nelle fasi di promozione e assunzione da comportamenti di autopromozione, che, come abbiamo visto, sono maggiormente assunti dagli uomini, e spesso non corrispondono alle effettive competenze del candidato o dipendente. Piuttosto, può essere utile rifarsi a metriche oggettive, punteggi effettivi dei test, rapporti di supervisori, colleghi e subordinati, appellandosi quindi a parametri valutativi oggettivi e imparziali, che possono aiutare ad abbattere più facilmente le differenze di genere, premiando il merito.

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