Sappiamo perfettamente che la furia nazista, durante gli anni della Seconda Guerra Mondiale, non risparmiò neppure i più piccoli; basti pensare al piccolo Sergio De Simone, cugino delle sorelle Andra e Tatiana Bucci, barbaramente ucciso dopo essere stato oggetto degli esperimenti crudeli del dottor Mengele, ma anche a Liliana Segre, che fu uno dei 25 bambini italiani (proprio assieme alle sorelle Bucci) che riuscirono a sopravvivere ai lager, su 776 deportati, e che affrontò una delle famigerate Marce della Morte.

Per non parlare poi di colei che è diventata il simbolo di tutti i bambini massacrati dai nazisti, Anna Frank.

Finora, però, la storia si è quasi sempre occupata dei bambini arrivati già grandi nei lager, ma praticamente mai di quelli nati all’interno del campo di concentramento. Cosa accadeva ai neonati di Auschwitz o Birkenau?

Il massacro dei neonati nei lager

Non si hanno stime precise dei nati nei campi di concentramento, perché l’anagrafe di campo non si preoccupò mai di registrarli, visto che, fino al 1943, non fu consentito praticamente a nessun neonato di sopravvivere, indipendentemente dall’etnia, come testimoniato anche sul sito auschwitz.org, in cui si legge

Nel primo periodo di esistenza del campo femminile, i bambini nati lì venivano messi a morte, indipendentemente dalla loro etnia, senza essere registrati nei registri del campo.

I bambini venivano molto spesso annegati, o lasciati a morire di fame, visto che l’allattamento nel campo non era permesso; il seno delle puerpere veniva spesso bendato proprio per impedire loro di allattare i figli, che lentamente morivano, non senza che prima i soldati tedeschi avessero testato quanto fosse forte la resistenza di quei neonati.

Alle partorienti veniva però talvolta inflitta anche un’altra crudele tortura: venivano infatti legate loro le gambe durante il travaglio, così che sia la madre che il bambino morissero tra atroci sofferenze. Questa pratica terribile fu adottata, ad esempio, da Irma Grese, Rapportführerin (il secondo gradino più alto nella gerarchia di comando femminile dei lager) di Birkenau, giudicata la più spietata boia del lager, tanto da “guadagnarsi” il nomignolo di Hyäne von Auschwitz, la “iena di Auschwitz”.

Solo pochi fortunati fra i neonati, in virtù delle proprie caratteristiche somatiche, riuscirono a sopravvivere, venendo destinati all’adozione per le coppie tedesche nell’ambito del Progetto Lebensborn.

Dalla metà del 1943, ai neonati non ebrei fu permesso di vivere, mentre agli ebrei e agli zingari fu concesso di farlo solo nei campi per famiglie Familienzigeunerlager, per i rom, e Theresienstädter Familienlager, ovvero il campo per famiglie di Terezin; a questi ultimi veniva assegnato un numero alla nascita. È però molto probabile che, con la liquidazione dei campi, nel 1944, praticamente nessuno di loro sopravvisse.

In quell’occasione, infatti, i prigionieri “abili”, di età superiore ai 14 anni, furono mandati al lavoro coatto, mentre un gruppo di 89 adolescenti fu personalmente selezionato da Mengele; i rimanenti 6-7.000 prigionieri furono uccisi nel corso di due notti, tra il 10 e il 12 luglio 1944. Dei 17.500 prigionieri di Terezin inviati al campo di famiglia di Birkenau, solo 1.167 sopravvissero all’Olocausto, tra cui un centinaio di bambini e adolescenti.

Talvolta i bambini venivano usati come veri e propri bersagli dai soldati nazisti, come racconta questo passo di Sono stato un numero, libro di Roberto Riccardi che ha raccolto la testimonianza del sopravvissuto Alberto Sed, scomparso nel 2019.

Un giorno io e un altro prigioniero ci trovavamo vicini ai carretti per il trasporto dei bambini. Dovevamo farne salire a bordo alcuni, fino a completare un carico. Una SS si avvicinò, indicò con il dito un bimbo di un paio di mesi e disse al mio compagno di lanciarlo sul carretto. Per rendere l’ordine più chiaro, mimò il gesto con le braccia, disegnando un volo molto ampio.

Lanciarlo? chiese il mio compagno, sbigottito. Il tedesco insisté. Gli puntò contro il fucile, urlò, e a lui non rimase che eseguire. In un istante che durò un’eternità, la SS sollevò la sua arma, prese la mira e sparò al piccolo mentre era in aria, come fosse al poligono di tiro. Lo centrò in pieno. Un suo collega, che osservava la scena da vicino, imprecò. Meno male, pensai, c’è ancora qualcuno che ha nel cuore un po’ di umanità. Ma presto quello che aveva brontolato si calmò, si mise una mano in tasca e prese dei marchi. Accennò a un sorriso sforzato, strinse la mano all’altro e gli consegnò il denaro. Impiegai un po’ per capire. Su quel tiro avevano scommesso, ecco spiegata la delusione del perdente.

Lo vidi fare più volte. Ogni volta eravamo noi a dover portare i bambini ai loro carnefici. Noi a lanciarli in aria, sotto la minaccia delle armi, con le SS che si esercitavano a colpirli mentre erano in volo.

Sono stato un numero. Alberto Sed racconta

Sono stato un numero. Alberto Sed racconta

Il direttore del Comando carabinieri per la tutela del patrimonio culturale Roberto Riccardi raccoglie la testimonianza di Alberto Sed, sopravvissuto ai campi di concentramento nazisti. Sed è scomparso nel 2019.
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La testimonianza di Stanisława Leszczyńska, la “Madonna in camicia a righe”

Fonte: web

È solo grazie ai racconti di Stanisława Leszczyńska, che operò come infermiera e ostetrica accanto a Mengele, chiamato l’Angelo della morte, che si sa qualcosa in più sul destino di questi bambini strappati alla vita subito dopo essere venuti al mondo.

Stanisława, polacca, venne mandata ad Auschwitz-Birkenau con la figlia Silvia dopo lo scoppio del secondo conflitto, arrestate dalla Gestapo, con gli altri tre figli, mandati in campi diversi, per aver aiutato gli ebrei (il marito invece morì nella rivolta di Varsavia); lì poté portare con sé i documenti che attestavano il suo lavoro di levatrice, cosa che le permise di praticarlo anche all’interno del campo dopo che l’ostetrica tedesca si ammalò.

I racconti di ciò che vide con i suoi occhi sono agghiaccianti: Stanisława parla di 3000 bambini nati vivi nel campo, di cui solo 30 sopravvissero. E questo nonostante lei si fosse coraggiosamente opposta all’ordine di Mengele di ucciderli tutti immediatamente.

Fino al maggio 1943 – ha raccontato nel Rapporto di un’ostetrica ad Auschwitz  – i bambini nati nel campo furono uccisi crudelmente: venivano annegati in un barile pieno d’acqua […]. Dopo ogni nascita […] veniva spruzzata violentemente dell’acqua, a volte per molto tempo. In seguito, la madre vedeva il corpo di suo figlio gettato a terra di fronte al dormitorio, rosicchiato dai topi.

La donna aveva allestito una sorta di sala parto nel caminetto che si trovava nel dormitorio, in condizioni igieniche davvero disastrose, utilizzando una coperta sporca al posto di bande e garze, che doveva scuotere per liberarla dai pidocchi da cui era infestata.

[…] nel dormitorio c’erano infezioni, puzze ed ogni tipo di parassiti. C’erano molti topi che mangiavano il naso, le orecchie, le dita dei piedi o i talloni delle donne molto malate, esauste, debilitate e che non potevano muoversi. […] I ratti, ingrassati con la carne dei cadaveri, sono cresciuti come dei grandi felini. […] Erano attratti dalla puzza dei corpi delle donne gravemente malate che non si potevano lavare e per le quali non c’erano vestiti puliti. Dovetti procurarmi io stessa l’acqua necessaria per lavare le madri e i neonati, e per portare un secchio di acqua era necessaria una ventina di minuti.

Molte furono le partorienti che morirono subito dopo aver dato alla luce i propri figli, proprio a causa della situazione di estrema insalubrità del luogo in cui erano costrette a vivere; altre, invece, ormai ridotte allo stremo, dopo il parto venivano condotte ai forni crematori. Una di loro, in particolare, una donna di Vilna condannata per aver aiutato i partigiani, colpì Stanisława

Subito dopo il parto chiamarono il suo numero. Andai a spiegare la situazione, ma senza alcun risultato. Anzi, la tensione finì solo per intensificarsi. Mi resi conto che l’avevano chiamata per andare al crematorio. Avvolse il suo bambino in un panno sporco e lo strinse al suo petto. Le sue labbra si muovevano in silenzio, sembrava voler cantare una canzone. Come facevano a volte alcune madri, che cantavano delle nenie per premiare i bambini che sopportavano il freddo, la fame e la miseria. La donna di Vilna non aveva la forza, e non poté cantare. Ma delle lacrime cadevano dai suoi occhi sopra la testa del piccolo carcerato.

Più tardi, negli anni, la donna continuò a ripensare alle scene vissute nel campo e ad essere tormentata da esse.

Tra tutti i ricordi tremendi, c’è un pensiero che continua ad assalire la mia coscienza: tutti i bambini sono nati vivi. Il loro obiettivo era quello di vivere. Di loro, nel campo, ne sono sopravvissuti solo una trentina. Diverse centinaia di bambini furono portati a Nakło per privare loro della nazionalità, oltre 1.500 furono annegati da Klara e Pfani [due infermiere tedesche], e più di 1.000 bambini sono morti di fame e di freddo.

Stanislawa divenne per le prigioniere la “Madonna in camicia a righe”; morì l’11 marzo 1974 per un cancro intestinale. Nello stesso anno è cominciato il suo processo di beatificazione.

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