“Vi prego di non fare mai di me una eroina perché questo mi irriterebbe moltissimo”,  disse Irena Sendlerowa a chi voleva raccontare la sua storia.

Non la chiameremo così, per rispettare la sua volontà, ma continueremo a ricordarla per quanto ha fatto durante la Seconda Guerra Mondiale. Per decenni, infatti, il suo nome è rimasto nascosto tra le maglie della storia, come quello di tante altre donne speciali come lei. Bruna Bianchi di DEP, la rivista telematica che si occupa di studi sulla memoria femminile, ha spiegato il motivo per cui a lungo il silenzio ha avvolto le vite di coraggiose protagoniste come Irena.

Diversamente dai gruppi di resistenza, che durante il conflitto bellico si erano dedicati ad azioni come incursioni armate e pubblicazioni clandestine e che poi vennero pubblicamente celebrati, chi si occupò di salvare i bambini non ricevette lo stesso trattamento. Per gli Stati, queste persone non avevano compiuto un gesto politico e di amor patrio, ma semplicemente qualcosa di “normale”, ragion per cui non fu ritenuto necessario celebrarle. Debórah Dwork, storica americana che si è occupata principalmente di Olocausto, è stata la prima ad alzare il velo su questo argomento. Irena Sendlerowa, e tante altre donne come lei, per decenni hanno così continuato a credere di non aver fatto nulla di così speciale.

Nata in Polonia nel 1910, quando la Germania invase il suo paese nel 1939, Irena Sendlerowa lavorava come infermiera e assistente sociale a Varsavia. Suo padre, morto di tifo quando lei era ancora piccola, si era ammalato mentre assisteva pazienti che altri suoi colleghi si erano rifiutati di curare, come gli ebrei. Per questo motivo, la comunità ebraica di Varsavia aveva pagato gli studi della piccola orfana, come segno di riconoscimento. E lei fece lo stesso durante l’occupazione nazista, impegnandosi personalmente per trovare i passaporti falsi per le famiglie ebree ed entrando a far parte della resistenza polacca con il nome fittizio Jolanta.

Decisi di sfruttare il mio posto di lavoro per aiutare gli ebrei. Il Dipartimento dei servizi sociali possedeva all’epoca una vasta rete di centri nei vari quartieri. Feci in modo di reclutare persone fidate che collaborassero con me, almeno una per ognuno di questi centri. Fummo costretti ad emettere centinaia di documenti falsi e falsificare le firme. I cognomi ebraici non potevano figurare tra le persone che ricevevano assistenza.

Nel 1942, quando gli ebrei vennero rinchiusi nel ghetto della città, Irena Sendlerowa riuscì a ottenere un lasciapassare dal Dipartimento del Controllo Epidemiologico di Varsavia. Ufficialmente poteva entrare per verificare la diffusione del tifo, ma in realtà iniziò a prodigarsi per salvare i bambini da morte certa, portandoli fuori di nascosto grazie alle ambulanze. I piccoli venivano poi affidati a famiglie e chiese cattoliche, che si occupavano di loro e li nascondevano dai nazisti.

Le persone coinvolte nel salvataggio divennero centinaia, ma c’era un aspetto particolarmente complicato di tutta l’operazione. Parlando con la sua biografa Anna Mieszkowska, autrice del libro Nome in codice: Jolanta, Irena disse di aver faticato a convincere i genitori ad affidarle i figli e di ricordare ancora lo strazio di quei momenti. “Nella mia mente, posso ancora vederli piangere quando lasciavano i genitori”. Grazie al registro, da lei compilato scrupolosamente, si seppe poi che si trattava di 2500 bambini.

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Nell’ottobre 1943 la sua opera venne bruscamente interrotta: arrestata dalla Gestapo, Irena Sendlerowa fu sottoposta a terribili torture, ma non parlò. Con le gambe spezzate, venne condannata a morte, ma fu salvata dalla rete della resistenza polacca e visse per i restanti mesi nell’anonimato. Alla fine della guerra, il suo registro venne consegnato a un comitato ebraico, che riuscì a rintracciare circa duemila piccoli. Lei si ritirò a vita privata per diversi anni, ma solo molto tempo dopo raccontò di soffrire ancora.

Ho molti rammarichi, il mio fallimento maggiore è stato quello di non aver fatto di più, di non essere riuscita a salvare più bambini e di non averli trovati dopo la guerra. Spesso ho incubi e rivedo i bambini che piangono mentre li porto via dai genitori. E mi ricordo di quelli che ho lasciato al loro destino. Sono molto vecchia ora e vedo con chiarezza i miei fallimenti.

La sua storia è diventata di pubblico dominio solo in tempi recenti, in seguito a un caso curioso. Nel 1999 quattro giovanissime ragazze del Kansas scoprirono la vicenda di Irena Sendlerowa e decisero di mettere in scena una breve opera teatrale dal titolo Life in a Jar. Le inviarono il copione e nel 2001 andarono a trovarla in Polonia: in seguito si impegnarono per salvare dall’oblio la salvatrice e fu grazie a loro che Mieszkowska decise di scrivere la biografia. Da quel momento iniziarono a fioccare i riconoscimenti, tanto che nel 2007 il governo polacco decise all’unanimità di proclamarla eroe nazionale. Irena Sendlerowa morì un anno dopo, nel 2008, a 98 anni.

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