"Mia figlia, nata in un corpo sbagliato": com'è essere madre di un* transgender

Una figlia con disforia di genere e un lungo cammino fatto di ostacoli ma anche di grandi consapevolezze. È la storia di Gina e di sua figlia Angelica, che presto inizierà il percorso di transizione per diventare Nicolò.

Angelica si riferisce a se stessa usando ancora il nome di nascita e il femminile, preferendo aspettare l’inizio del percorso di transizione per adottare il nuovo nome. In rispetto all’autodeterminazione che spetta a ogni individuo, anche in questa intervista ci siamo adeguati alla sua volontà.

Gina è la mamma di una giovane ragazza transgender di nome Angelica, che a breve inizierà il percorso di transizione per diventare Nicolò. Abbiamo letto le sue parole dalla nostra pagina Facebook, a commento della tragica storia di Leelah, morta suicida nel 2014 a causa delle discriminazioni subite per via della disforia di genere, una condizione vissuta da molte persone che non si riconoscono nel genere con cui sono nate.

Immediato il nostro interesse nei confronti di una tematica così delicata e ancora troppo poco conosciuta nel nostro Paese, che merita di essere raccontata degnamente dalle persone che l’attraversano in prima persona per dare voce a un fenomeno ancora oggi discriminato, censurato o forse, semplicemente, non compreso.

Prima di procedere oltre, chiedo a Gina se devo riferirmi alla figlia al maschile o al femminile. È una questione molto importante rispettare le volontà delle persone che stanno per affrontare un percorso di transizione: “Al momento Angelica preferisce parlare ancora di sé al femminile. Quando inizierà a tutti gli effetti il percorso, le cose cambieranno”.

La conversazione poi entra subito nel vivo: Gina ha una voce dolce e gentile, ma le sue parole sono cariche di intensità e raccontano immagini potenti, dense di emozione. Non ci sono troppe domande, Gina parla e si legge un senso di libertà in quelle parole che sceglie con cura e che arrivano dirette.

Angelica vive a metà, vuole sentirsi Nicolò.

È questa una delle prime frasi che pronuncia, quando parla della figlia Angelica, che a breve inizierà la cura ormonale per intraprendere il percorso di transizione e diventare Nicolò. Mi confida con rammarico che il Covid ha rallentato tutto, ma che presto sua figlia potrà finalmente iniziare quel cammino che da tempo desidera fare e che ha maturato non senza sofferenza e difficoltà.

Angelica ha 22 anni, è un’educatrice presso una scuola, mi confida Gina. Sin da subito percepisco un estremo senso di rispetto e discrezione nei confronti della figlia che imparo a conoscere attraverso le sue parole. Poi, mi racconta degli inizi, di come è nata in Angelica la consapevolezza di vivere in un corpo sbagliato.

All’età di 15 anni Angelica inizia a percepire di sentirsi nel corpo sbagliato. Ha capito che interiormente stava vivendo qualcosa di più grande di lei. Sono stati momenti difficili: viveva male, non stava bene con se stessa, aveva difficoltà a mostrare il suo corpo, quando andavamo al mare, ad esempio, si rifiutava di venire in spiaggia e mettersi il costume. Io non capivo, poi, con il tempo, mi sono sentita uno schifo a pensare che mentre lei soffriva, io l’avevo lasciata sola.

Ma ancora non si era dato un nome a quel disagio, e, solo con il tempo, Angelica capisce di avere bisogno di un sostegno.

Così, si rivolge al Mit di Bologna, un’associazione Onlus che difende e sostiene i diritti delle persone transessuali e transgender. Lì, viene seguita da un consulente psicologico che, finalmente, le parla di disforia di genere. È stato un nuovo inizio: Angelica ha capito davvero chi era. Aveva finalmente trovato un nome per quella sensazione che da anni viveva e che aveva cercato di allontanare da sé, non riuscendoci. Da quel momento, il percorso è stato chiaro, anche se pieno di ostacoli e difficoltà.

Il cammino a cui deve sottoporsi una persona con disforia di genere, come ci raconta Gina, non è affatto semplice: consulenze psicologiche, esami clinici e poi la terapia ormonale per iniziare il vero e proprio percorso di transizione. Per non parlare dei pregiudizi della gente e delle discriminazioni che le persone transgender si trovano inevitabilmente a subire.

Angelica però è sempre stata forte. È grazie a quella forza che ha potuto guardare negli occhi la realtà e viverla oltre ogni difficoltà. È solo suo, il merito. All’inizio non sono stata brava, non l’ho appoggiata, le davo contro. Poi, solo dopo qualche tempo, ho potuto capire che non si trattava di un capriccio o di una moda, ho capito che le persone con disforie di genere vivono una situazione reale.

Gina ci racconta quanto all’inizio fosse dura anche per lei accettare questa situazione:

La mia reazione, più che ignoranza o incomprensione, era dettata dalla paura del pregiudizio, paura per mia figlia, per le difficoltà e i pregiudizi che avrebbe incontrato, ma la forza di mia figlia è stata immensa e mi ha trascinato con lei. Sono riuscita con il tempo a mostrarle il mio sostegno e a lottare con lei. Ora la vedo serena, e sono al suo fianco in attesa di questo cambiamento.

La stessa Angelica ammette di avere avuto una grande fortuna, quella di ricevere il sostegno della famiglia e delle persone care, ma non sempre le persone transgender vivono una situazione così serena. Le difficoltà iniziali, vissute da tutti, spesso si acuiscono nel tempo perché si incontrano discriminazioni e rifiuti, e non è così scontato riuscire a trovare la forza per proseguire da soli in questo lungo e complesso cammino. Le storie di cronaca, del resto, spesso ce lo confermano.

Gina mi riporta poi alcune parole della figlia che ci raccontano il dolore che le persone con disforie di genere provano nel loro cammino di consapevolezza.

Ho fatto fatica ad ammetterlo a me stessa, ad accettarlo. L’ho sempre saputo dentro di me ma non ho mai voluto vederlo, almeno all’inizio. I pregiudizi che hanno tutti, li abbiamo anche noi, perché fin da piccoli ci viene insegnato che la persona transessuale ha un qualcosa di diverso, che svia dalla natura. Poi è successo qualcosa, e sono riuscita finalmente a guardarmi in faccia e decidere che volevo stare bene.

È difficile pensare che di fronte a un tormento interiore e a un dolore così intenso, possa vincere ancora la discriminazione, l’incomprensione e la condanna. Testimonianze come quelle di Gina, e di sua figlia Angelica, possono servire a sensibilizzare, far conoscere e contribuire a costruire una sempre maggiore consapevolezza nei confronti di una società inclusiva che accolga le diversità e tragga da queste insegnamento e arricchimento.

Oltre al muro delle discriminazioni, le parole di Gina ci insegnano che c’è un altro muro da abbattere, quello del silenzio e dell’indifferenza. Solo un atteggiamento più consapevole ed empatico e la diffusione di una cultura dell’accoglienza, che parta dai più piccoli gesti del quotidiano fino al riconoscimento legislativo ad opera delle istituzioni, possono davvero contribuire a tutelare ogni tipo di diversità e contribuire a realizzare un vero cambiamento.

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