Dopo decenni di oblio, la pandemia di COVID-19 ha riportato alla luce la storia di June Dalziel Almeida. Pioniera nel campo della microscopia elettronica, la virologa britannica fu la prima persona a identificare i coronavirus.

Nonostante l’abbandono della scuola a 16 anni, a causa delle condizioni economiche della sua famiglia, riuscì comunque a costruirsi una carriera di rilievo nella scienza grazie alle sue eccezionali capacità con il microscopio elettronico. E tutto mentre cresceva una figlia da sola, come ricorda un recente articolo di Medium.

La formazione di June Dalziel Almeida

Nata nel 1939 a Glasgow, in Scozia, apparteneva a una famiglia di condizioni economiche modeste. Maggiore di tre figli, fu proprio la morte per difterite del fratello minore a spingerla verso lo studio della biologia.

Costretta a interrompere gli studi troppo presto, per aiutare economicamente i genitori, iniziò a lavorare come tecnico di laboratorio nella sua città e qualche anno dopo, in seguito al trasferimento a Londra, presso il St. Bartholomew’s Hospital.

Nella capitale inglese conobbe Enrique Almeida, un artista venezuelano, che sposò nel 1954. Insieme decisero di trasferirsi in Canada e lì ebbero la loro unica figlia Joyce, nel 1960.

Il lavoro al microscopio

Fonte: Joyce Almeida

June iniziò a lavorare all’Ontario Cancer Institute di Toronto come tecnico di microscopia elettronica, dove per la prima volta ebbe la possibilità di lavorare con un microscopio elettronico. In pochissimo tempo ne apprese il funzionamento e si specializzò nell’imaging e nell’analisi delle particelle virali.

Iniziò a utilizzare una tecnica chiamata colorazione negativa, in cui un metallo pesante, tipicamente acido fosfotungstico, veniva utilizzato per aumentare il contrasto nelle immagini. Era un lavoro sfiancante, che richiedeva grande attenzione ai dettagli e dedizione. Presto, però, iniziò a scoprire nuovi mondi, invisibili a occhio nudo.

Il suo primo progetto la portò a studiare le cellule che crescono su una superficie di vetro, per indagare la relazione tra virus e cancro. Molto apprezzata dai colleghi scienziati, fu incoraggiata a portare avanti le sue ricerche indipendenti: osservò così la struttura molecolare di diversi virus, tra cui quello della verruca comune, della rabbia e della varicella, realizzando per la prima volta immagini particolareggiate.

Le scoperte

Già autrice di numerosi articoli e pubblicazioni scientifiche, in un articolo del 1963 June Dalziel Almeida compose una scherzosa ode alla microscopia elettronica plasmata sulla celebre poesia The Tyger di William Blake, che possiamo così tradurre:

Virus, virus, divampante fulgore
Nella notte fosfotungstica,
Quale fu l’immortale mano o l’occhio
Ch’ebbe la forza di formare la tua quintuplice simmetria.

E una struttura simmetrica era anche quella del coronavirus. Lo scoprì nel 1964, tornata a Londra per lavorare con il virologo Tony Waterson, che l’aveva voluta nel suo team alla St. Thomas’s Hospital Medical School dopo averla vista all’opera a Toronto. Lì fu contattata da un altro ricercatore, il dottor David Tyrrell, che aveva raccolto campioni di un virus simile all’influenza, etichettato come B814.

Poiché il B814 non poteva essere replicato in laboratorio, Tyrell sospettava che fosse un nuovo virus. Ed era proprio così: esaminandolo al microscopio, June Dalziel Almeida si ricordò di aver visto qualcosa di simile nei polli e nei topi e la struttura a forma di corona era proprio la stessa.

Insieme pubblicarono le prime immagini del Coronavirus umano nel 1967 sul Journal of General Virology. Una volta fatta questa scoperta, June passò a nuove ricerche e studi, come d’abitudine.

Una nuova vita

Mentre la sua carriera cresceva, il suo matrimonio sprofondava: Enrique le chiese di tornare con lui in Canada, ma June preferì restare in Inghilterra. La coppia decise così di separarsi e nel 1967 arrivò il divorzio: lei proseguì dritta per la strada, conciliando la vita da madre single e il suo lavoro.

Si ritirò definitivamente verso la fine degli anni Ottanta e divenne insegnante di yoga e appassionata di oggetti di antiquariato, che cercava con il marito Phillip Gardner, anche lui virologo in pensione. Prima della sua morte, nel 2007, fu richiamata dalla St. Thomas per aiutare nella formazione degli scienziati: era già in pensione, ma aveva ancora molto da insegnare.

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