Aiutatemi a morire, come dj Fabo“.

Di richieste così, all’Associazione Coscioni, ne arrivano ogni giorno. 900, solo negli ultimi cinque anni, 75 nei primi mesi del 2020. Tutte chiedono la stessa cosa: di andarsene con dignità, di avere l’opportunità di scegliere il momento in cui dire addio alla vita per non sopportare oltre il dolore, fisico e psicologico, dovuto alle malattie neurologiche con cui convivono da anni e che spesso li riducono allo stato di vegetali, incapaci di parlare o di nutrirsi autonomamente.

Molto spesso il dibattito legato all’eutanasia in Italia, alla sua legalizzazione, all’offrire ai malati la possibilità di scegliere di morire nel proprio Paese, senza recarsi all’estero, finisce irrimediabilmente con l’andare a toccare la questione morale e la religione; ma coloro che scrivono all’Assocazione Coscioni chiedendo aiuto, informazioni o supporto non sono sempre e solo atei: lo dimostra la testimonianza di Mario, un architetto malato di sclerosi multipla che si dichiara cattolico convinto eppure non riesce più a vedere una parvenza di vita in quella che sta portando avanti.

Sono Mario, architetto, con diagnosi di sclerosi multipla progressiva del 2002 – si legge sul sito dell’Associazione – Sono tetraplegico, scrivo con i comandi vocali e cattolico, ma la fede prescinde dai comportamenti dei singoli. Tutto ciò che guadagno con il lavoro e i sussidi pubblici lo uso per pagare l’assistenza. Sostanzialmente la mia vita non è poi così dignitosa ormai, nonostante quello che pensano le persone che mi incontrano per strada salutandomi come se fossi un’icona, un ponte per raggiungere la loro personale misericordia di Dio. Ma nessuno si chiede quanto costi in termini economici tutto ciò… Ora sono lucidamente a terra, dubito di voler continuare così, dubito sinceramente che sia questa la fine dignitosa. Ho intenzione di scrivere alla clinica svizzera dove aiutano ad addormentarsi. Purtroppo però sono nullatenente, nemmeno mi sposto più dalla mia città.

La legge sull’eutanasia in Italia è impantanata in uno stagno da anni, nonostante le pronunce della Corte Costituzionale e alcuni piccoli passi in avanti, come la legge 219/2017 che ha disciplinato la possibilità, per il malato, di rifiutare o sospendere qualsiasi terapia, incluse quelle salvavita. Ma nel frattempo molti malati continuano a chiedere a gran voce il diritto di decidere quando e come porre fine alla propria esistenza, il rispetto per il proprio dolore e, di conseguenza, l’aiuto di uomini e donne che da anni si battono per il riconoscimento di tale diritto.

Come Marco Cappato, assolto dall’accusa di suicidio assistito nel caso di Fabiano Antoniani, ma protagonista di un nuovo processo, assieme a Mina Welby, vedova di Piergiorgio (morto nel 2006 dopo che il suo medico curante, Mario Riccio, seguendo le sue richieste staccò il respiratore che lo teneva in vita): quello in cui sono stati accusati di aiuto al suicidio offerto a Davide Trentini, il 53enne, malato di SLA da trent’anni, morto nell’aprile del 2017 in Svizzera, dove fece ricorso al suicidio assistito proprio con l’aiuto di Mina Welby, che fornì aiuto per completare la documentazione necessaria e lo accompagnò fisicamente, e lo stesso Cappato, che raccolse la somma che gli mancava per recarsi alla clinica attraverso l’associazione Soccorso Civile.

Per questo nuovo caso il pm massese Marco Mansi aveva chiesto una condanna a 3 anni e 4 mesi di carcere, sottolineando di riconoscere la natura altruistica del gesto.

Chiedo la condanna ma con tutte le attenuanti generiche e ai minimi di legge. Il reato di aiuto al suicidio sussiste, ma credo ai loro nobili intenti. È stato compiuto un atto nell’interesse di Davide Trentini, a cui mancano i presupposti che lo rendano lecito.

Entrambi sono stati assolti da ogni accusa, nella giornata del 27 luglio 2020, in quella che può essere considerata una sentenza rivoluzionaria per le ragioni che spiegheremo tra poco.

Non può esistere retorica nelle parole di chi, come Mario, è disposto a mettere sulla pubblica piazza le proprie questioni private, anche economiche, pur di far comprendere quanto grandi siano il disagio di fronte a una vita che non è più considerata tale, da un lato, e la speranza di potervi porre fine dignitosamente, dall’altra. Fra le lettere che arrivano all’Associazione Coscioni si leggono le parole dolorose di chi, come Laura, è una figlia che ha già perso la madre per un tumore e ora chiede solo di poter esaudire l’ultimo desiderio del padre malato di cancro al fegato.

Mi ha chiesto più volte di essere portato in Svizzera o in qualche clinica italiana dove possano aiutarlo ad andarsene. Ho bisogno di un consiglio, di sapere come posso aiutarlo.

Ma anche di chi, proprio come ha fatto Mario, scrive per sé, cercando di far comprendere quanto forte sia il desiderio di cambiare un destino che è ineluttabile e senza prospettive.

Io francamente la fine dei miei genitori, torturati dai medici, non la voglio fare – scrive questa persona, come raccontato da Repubblica – Voglio poter morire in santa pace e come dico io, con dignità e non ridotto a larva umana o in stato vegetale, con tutto il rispetto per chi invece fa questa scelta. Le scrivo ora che posso ancora ragionare con la mia testa perché presto inizierà un calvario che non avrei mai voluto affrontare. Vorrei se possibile avere un contatto con voi, ora che sono ancora capace d’intendere e di volere, per capire come muovermi un domani e, cosa dovrò fare se mi diranno che la chemio su di me non ha fatto effetto.

E Cappato tiene a precisare che

Drammi come questi sono solo la punta dell’iceberg di una realtà sociale che, con l’innalzamento della durata media della vita, è sempre più consistente ma è trattata con indifferenza dalla politica ufficiale dei partiti.

La cosa che sperava chi è a favore della legge sull’eutanasia è che proprio il nuovo processo in cui il Tesoriere dell’Associazione Coscioni era imputato, assieme alla vedova Welby, potesse rappresentare un nuovo tassello da aggiungere per far riprendere il dibattito in parlamento; e questo proprio in virtù della sentenza della Corte Costituzionale del novembre 2019 che ha legalizzato l’accesso al suicidio assistito di fronte alla presenza di quattro “Criteri oggettivi” che rendono non punibile “chi agevola l’esecuzione del proposito di suicidio, autonomamente e liberamente formatosi, di un paziente

  • tenuto in vita da trattamenti di sostegno vitale.
  • affetto da una patologia irreversibile.
  • fonte di sofferenze fisiche o psicologiche che egli reputa intollerabili ma
  • pienamente capace di prendere decisioni libere e consapevoli”.

Per il caso di Davide Trentini, Cappato e Welby – che di rientro dalla Svizzera, il giorno dopo la morte dell’uomo, si autodenunciarono ai Carabinieri di Massa – erano dunque punibili? La sentenza di assoluzione è stata emessa con solo tre requisiti su quattro da ascriversi a quei criteri oggettivi poc’anzi citati: patologia irreversibile, fonte di sofferenze intollerabili e capacità di intendere e volere. Tanto che Filomena Gallo, segretaria dell’Associazione Luca Coscioni e coordinatrice del collegio di difesa Welby-Cappato, ha commentato così l’assoluzione:

È una decisione importante perché chiarisce che il requisito, per il malato, della presenza di trattamenti di sostegno vitale non è limitato alla sola presenza di macchinari ma comprende anche trattamenti farmacologici e di assistenza come nel caso di Davide.

 

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