Ho 20 anni e sono felice: studio per laurearmi e fare il lavoro che mi piace, ho una relazione stabile e duratura con il mio ragazzo, ho una bella famiglia (circa). Tuttavia, non sempre è stato tutto rosa e fiori e, a volte, i fantasmi del passato tornano a farmi visita.

Tre anni fa, a 17 anni, conobbi il mio primo fidanzato “serio”: ero molto presa da lui e felice di aver trovato qualcuno. Purtroppo, però, si rivelò non essere così tanto perfetto. Dopo circa 1 mese di frequentazione, esattamente il 4 dicembre, fui operata. Nulla di grave, solamente che ero costretta a riposare, stare a letto e camminare il meno possibile. Lui fu obbligato a venirmi a trovare a casa e, così, conobbe la mia famiglia.

Data la situazione, mia madre lo invitò al cenone della vigilia di Natale e fu in quell’occasione che iniziò a dimostrarsi per quello che era. Ad Halloween, insieme a 3 mie amiche, decisi di andare in discoteca e mi vestii con tacco alto e vestito corto (so cosa si pensa ma ero single ed era una festa, non ci vedevo nulla di male!). Gli confessai com’ero vestita perché eravamo entrati nell’argomento e lui, davanti a tutti, non dicendolo apertamente ma facendolo capire, mi diede della poco di buono.

Più avanti, quasi verso Capodanno, mi venne l’influenza poiché ancora debole dall’operazione. Un sabato mattina che non lavorava, mi venne a trovare. Io, in realtà, non avrei voluto vederlo perché stanca e malata. Si mise nel letto con me ed iniziò a farmi capire le sue intenzioni, che declinai un paio di volte siccome non avevo le forze e la voglia. Si fece ancora più insistente ed io gli diedi uno sbuffetto sulla spalla, come a dirgli di smetterla. Lui, allora, mi prese i polsi e me li strinse facendomi male e mi guardò con cattiveria. Avevo paura che mi avrebbe picchiata, ma non l’ha fatto. Però mi ha terrorizzata. Qualche settimana dopo lo lasciai, il problema, però, fu che non lo lasciai per quello che era accaduto poiché lì per lì non ci vidi nulla di male.

Il febbraio scorso – 2019 – mi ha riscritto dopo 2 anni che non ci sentivamo più: la conversazione finì dopo qualche scambio di informazioni. Non ce la facevo, era più forte di me e troppo da sopportare: parlare con lui aveva fatto riaffiorare tutto quello che era successo. Infatti, dopo esserci salutati, mi misi a piangere per almeno 10 minuti. Io vorrei dimenticare tutto questo, cancellarlo dalla mia mente perché, nonostante di lui non mi importi più niente, il ricordo fa ancora male. Nonostante io sia felice. Nonostante tutto.
(lettrice anonima)

Non molto tempo fa ero mio malgrado in una situazione non troppo diversa da quella in cui tu, cara amica, ti sei trovata tre anni fa: lasciare un uomo violento non perché lo vedessi immediatamente e chiaramente per ciò che era (e che è), ma perché la relazione con lui mi faceva sentire eccessivamente a disagio.

Non era la prima volta, naturalmente. A differenza di quello che i media si ostinano a fare (giustificare gli uomini violenti e, nel caso non siano scusabili, definirli come una minoranza di fuori di testa, di pazzi) sappiamo tutte benissimo che nella vita sarà molto facile per noi imbatterci in un uomo che concepisce la relazione (ogni relazione: da quella intima a quella lavorativa, passando per l’amicizia o anche solo una semplice conoscenza) come un terreno di diritto a essere possessivo, controllante, coercitivo, ricattatorio, giudicante, in una parola: violento.

Questa facilità è data da due fattori. Il primo giuridico: i processi per violenza di genere non vedono mai imputato l’uomo violento, ma la donna vittima, di cui si mettono in dubbio prima la moralità, poi l’accondiscendenza e perfino il tornaconto personale. Per farti un’idea di quanto sia ingiusta la giustizia italiana nei confronti delle donne (dalle leggi, quindi la normativa, fino alle loro applicazioni, dunque le aule di tribunale) ti invito a seguire l’importantissimo progetto “Quanto vale la vita di una donna?” che proprio Roba da Donne ha pubblicato nel 25 novembre appena passato, giornata contro la violenza di genere.

Il secondo è culturale, ed è legato al primo fattore esattamente come l’uovo e la gallina del famoso paradosso. Un sondaggio condotto da ISTAT ha infatti reso evidente con dati numerici ciò che già sappiamo: due italiani su cinque (il dato esatto è 39,3%) sono certi che per una donna sia sempre possibile sottrarsi a un rapporto sessuale indesiderato; e quasi uno su cinque (esattamente il 23,9%) afferma che l’abbigliamento delle donne è uno dei fattori che provocano l’abuso. La statistica è sul sito ISTAT: puoi leggere il quadro sconfortante di luoghi comuni e pregiudizi che ancora serpeggiano per il nostro Paese, nonostante iniziative forti e importanti. Tra queste vale la pena citare “Com’eri vestita?”, che mette in mostra l’abbigliamento delle vittime di stupro dimostrando che per un uomo violento non esiste differenza tra una minigonna attillata e una tuta informe; o “L’invisibilità non è un potere” che espone le lastre delle vittime di violenza domestica con i racconti delle loro storie di sopportazione oltre ogni limite.

Questo è il punto: dov’è il limite? Hai fatto bene a lasciarlo. Fai bene a non concedergli più spazio o tempo nella tua vita. Sei saggia a non dimostrarti amichevole. Quando è successo a me, il consiglio migliore me l’ha dato una cara amica. Una che, come me, c’era già passata. Una che, a differenza di me, non c’era più cascata. Mi ha detto: “Questo è inaccettabile: hai tutto il diritto di essere stronza”. E così, mi ha aiutato a salvarmi.

La “normalità” opposta di uomini e donne di fronte alla violenza

Assistere passivamente ogni giorno a racconti mediatici su ogni canale (TV, giornali, cinema, fiction, libri, web) che giustificano gli uomini violenti trasformando l’abuso, la prevaricazione, la coercizione e perfino l’omicidio in qualcosa di “comprensibile” ha prodotto nella società un “bias cognitivo” gravissimo: una sorta di pregiudizio diffuso e accettato che ci rende incapaci di analizzare gli aspetti di una vicenda e giudicarli oggettivamente. L’iper-umanizzazione della violenza è costruita a partire da un’intricata selva di pregiudizi antistorici: le donne sono dolci, accudenti, non si arrabbiano mai, sopportano, desiderano più di tutto essere mogli e madri, sacrificano volentieri la loro vita per l’amore (per il marito, per i figli, per gli anziani); gli uomini sono focosi, possessivi, irrazionali, non piangono mai, non esprimono sentimenti se non con la forza, e questo fa parte della loro natura perché devono sempre apparire affidabili agli occhi della compagna.

Questi ruoli da cavernicoli, francamente ridicoli, persistono ancora oggi nella narrazione massmediatica dove addirittura, di fronte a un omicidio per un semplice rifiuto, è accettabile che sulle prime pagine di quotidiani anche non esplicitamente misogini l’assassino, che ha pianificato il suo omicidio, sia definito “perdutamente innamorato”, o addirittura “gigante buono”; e lei, invece, era quella che lo “illudeva” o lo faceva sentire “inadeguato”.
In storie come questa manca sempre la stessa cosa: il rispetto per il no di una donna. Che è un no a molte cose: alla gentilezza a ogni costo, alla sottomissione, a essere scelta, ad appartenere a qualcuno, a subire un ruolo sociale, a dipendere da altri, a sopportare l’insopportabile, a sacrificarsi, a decidere autonomamente per sé.

Nonostante sia sfuggita alla violenza, la lettrice che ha scritto mette tra parentesi un giudizio molto emblematico su se stessa: “so cosa si pensa, ma non ci vedevo nulla di male”. Prima ancora del giudizio altrui (arrivato senza mezzi termini da quell’uomo che scambiava l’amore con il diritto ad avere con lei un rapporto con la forza mentre era convalescente, dunque a stuprarla nella casa dei genitori di lei, nel suo letto, in uno spazio dove lei avrebbe dovuto sentirsi al sicuro) lei ha già interiorizzato un giudizio su di sé, implacabile. A questa ragazza, e a molte altre come lei, gli ambienti in cui è cresciuta (famiglia, scuola, amicizie) hanno insegnato per primi che una minigonna non è solo un vestito tra i tanti, ma un fattore scatenante dello stupro. A quel ragazzo gli stessi ambienti hanno insegnato che, quando una donna ti ama, di lei e del suo corpo puoi fare ciò che vuoi: tu hai diritti che lei non ha; perché lei non è una persona: il tuo amore ne fa una cosa tua, come tutto ciò che senti di “possedere”, dal tuo cane alla tua automobile.

A tutti loro è stato insegnato che la violenza di genere ha sempre un unico colpevole: le donne. Anche l’amore è colpa delle donne. Cosicché ecco che il groviglio tra amore e violenza appare culturalmente un nodo inestricabile: non può esistere l’uno senza l’altro, la violenza è solo una rara eccezione di ogni grande passione. Ma non è così.
Finché a questi ragazzi gli ambienti in cui crescono e si formano (famiglia, scuola, amicizie) non insegneranno modelli diversi, finché non cambieremo la narrazione degli individui e dell’amore nei giornali, in TV, nel cinema, nei libri, nelle sceneggiature, in rete, continueremo ad accettare la violenza come inevitabile.

Provate a indovinare quant’è la percentuale di donne che decidono professionalmente dei contenuti che vengono pubblicati ogni giorno sui giornali, in TV, nel cinema, in letteratura, sulla rete. Non vi dò i numeri, ma un documento legislativo da leggere con attenzione: la Risoluzione sulla parità di genere nel settore dei media dell’Unione Europea adottata dal Parlamento UE nel marzo 2018. In cui c’è anche un paragrafo dedicato alle buone pratiche: perché una narrazione diversa di uomini e donne non solo è possibile, ma esiste già.

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La rubrica di Roba da Donne “Non te lo posso dire – Alziamo la voce VS il bullismo”, è curata da Nadia Busato, scrittrice e giornalista, che risponderà, in una sorta di posta del cuore, a chi il cuore lo ha ferito dalla crudeltà altrui, a chi ha perso la speranza, a chi non sa come uscirne o con chi parlarne e vorrà raccontarci la sua storia di bullismo e soprusi.
Accanto a noi, in questo percorso, gli amici di Centro Nazionale contro il Bullismo – Bulli Stop, il dottor Massimo Giuliani e la dottoressa Carmen Sansonetti (Area Nord Italia – Lombardia Settore Scuole ed Eventi Sportivi), che ci hanno aiutato a mettere a punto il kit di primo soccorso che trovate qui di seguito.
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