La spettacolarizzazione del dolore nei mass media e sui social network

La spettacolarizzazione del dolore porta a un'attenzione estrema i dettagli più scabrosi e cruenti di violenze, guerre, omicidi, incidenti di grave entità e fatti di cronaca, conducendo i lettori e i fruitori della notizia a una sorta di "anestetizzazione" nei confronti delle disgrazie altrui, oggetto di morbosa curiosità. Vediamo di che cosa si tratta nello specifico.

Qual è il confine tra informazione e lesione della dignità e del rispetto altrui? E qual è, invece, quello tra la narrazione oggettiva e puntuale di un fatto di cronaca e l’attenzione morbosa ai dettagli che lo contraddistinguono?

Quando il diritto di cronaca valica il confine e si trasforma in disamina esacerbata della tragedia, si parla, infatti, di spettacolarizzazione del dolore, in particolar modo nei mass media e sui social network. Di che cosa si tratta e come si può arginare?

Storia della rappresentazione del dolore

In origine vi fu Aristotele: secondo il filosofo greco, assistere alla rappresentazione teatrale di una tragedia garantiva allo spettatore la possibilità di una catarsi, ossia una “purificazione” dalle proprie angosce e passioni quotidiane dovuta alla stretta somiglianza dell’arte drammatica con la realtà che essa rappresentava.

Il dolore e la pietà venivano, così, sublimati ed elaborati mediante la riproduzione fedele di lutti e fatti sanguinosi e violenti, espediente per svincolarsi da quel “male comune” caratterizzato proprio dalla violenza.

A quanto pare, tuttavia, questo bisogno ossessivo di addentrarsi nel dolore altrui affonda le proprie origini in tempi remoti. Come spiega la dottoressa Anastasia Zottino, appunto:

Le radici della nostra curiosità vanno rintracciate nella nostra storia più antica, quando l’uomo primitivo aveva il bisogno di osservare gli altri per capire se esistesse un pericolo anche per la propria sopravvivenza. In alcuni articoli scientifici, infatti, si dimostra come questo spieghi il fatto che se vediamo un incidente siamo portati a guardare cosa succede.

Tale spettacolarizzazione ha, poi, raggiunto la sua acme attraverso i mass media e i social network: una sorta di “agorà digitale” in cui qualunque utente può, potenzialmente, essere esposto ai dettagli più atroci delle vicende di cronaca nera (e non solo) che costellano le nostre esistenze.

La spettacolarizzazione del dolore nei mass media

Come afferma l’articolo 8 del Codice di deontologia dell’attività giornalistica:

Salva l’essenzialità dell’informazione, il giornalista non fornisce notizie o pubblica immagini o fotografie di soggetti coinvolti in fatti di cronaca lesive della dignità della persona, né si sofferma su dettagli di violenza, a meno che ravvisi la rilevanza sociale della notizia o dell’immagine.

Eppure, come vediamo ogni giorno sulle testate giornalistiche cartacee e online e nei telegiornali, il confine tra “rilevanza sociale” e morbosità sta divenendo sempre più labile e sottile. Omicidi, guerre, stupri, violenze, reati e incidenti di grave entità sono, infatti, narrati con estrema attenzione ai dettagli maggiormente cruenti e vividi, destabilizzando colui che riceve la notizia e, al contempo, anestetizzandolo all’orrore.

Lo dimostrano in maniera lampante i programmi televisivi, dove i fatti di cronaca nera vengono scandagliati nei loro meandri più intimi, scabrosi e disturbanti per ore e ore, senza alcun rispetto per le persone coinvolte e la sensibilità degli ascoltatori. Come si legge su L’Ultima Voce:

Dagli omicidi alle sparizioni,  i casi già trattati dai telegiornali vengono dati in pasto a “opinionisti” che tra un gossip e l’altro esprimono pareri e giudizi sui fatti e sugli indagati. Sì, indagati, perché ciò che tiene incollati agli schermi gli spettatori è il fatto che le indagini siano ancora in corso e che nuove indiscrezioni vengano rilasciate in continuazione. Come se fosse il pubblico a dover risolvere il caso, o uno degli ospiti in studio.

In qualsiasi fascia oraria del giorno, quindi, telegiornali, trasmissioni di vario genere e giornali (soprattutto online) non lesinano sui particolari più impattanti di eventi dolorosi che riguardano la comunità, ora tramutatisi in fatti spettacolari e accattivanti, alla stregua delle pagine di gossip e di quelle culturali.

I social network e la spettacolarizzazione del dolore

Un altro luogo in cui il dolore trova ampia eco sono i social network, un bacino potenzialmente infinito di dettagli più inquietanti, eccessivi e forti dei fatti di cronaca nera e affini. È qui, infatti, che si può andare incontro a una vera e propria “pornografia del dolore”, anche a causa di un limitato controllo (ora acuito) dei contenuti pubblicati e condivisi.

Come si legge su K Magazine:

Sui social network non si ha il controllo sulle notizie e le immagini che si incontrano sul feed, per cui un utente potrebbe ritrovarsi costretto a vedere qualcosa che avrebbe preferito evitare e che potrebbe avere un impatto negativo sul proprio benessere psicofisico. Una modalità valida è, allora, l’utilizzo di disclaimer e trigger warning, che segnalano la presenza di elementi disturbanti e che invitano dunque l’utente a compiere una scelta consapevole nel continuare o meno a leggere, guardare o ascoltare una certa notizia.

Non tutti gli utenti, appunto, posseggono la medesima sensibilità, perciò risulta estremamente necessario tutelare coloro che fruiscono dei social network mediante avvertenze e segnalazioni opportune, al fine di preservarne l’equilibrio psicologico.

Un compito spesso arduo, soprattutto se si considera che la diffusione di tali piattaforme ha amplificato l’attrattiva per il dolore e le disgrazie altrui e aumentato, in tal modo, quella curiosità nei confronti dei particolari scabrosi che caratterizzano una molteplicità di individui, sia online, sia offline.

Le conseguenze e i rischi

Ma quali sono gli effetti (negativi) di tale spettacolarizzazione del dolore? Li spiega la dottoressa Anastasia Zottino:

Parlare della cronaca nera in modo così sfrontatamente dissacrante ci abitua a pensare alla violenza come a un elemento imprescindibile nella vita di tutti i giorni, un fatto che molto probabilmente può accadere, con il rischio anche di farci sentire continuamente vulnerabili, senza altra via d’uscita che la resa, abituandoci a parlare o sentir parlare del dolore altrui con leggerezza e poco rispetto.

Sottoporci costantemente al dolore altrui, infatti, ci condurrebbe a una sorta di “anestetizzazione”, dell’empatia, del disagio nei confronti di determinate esagerazioni narrative e dello sdegno in relazione al trattamento irrispettoso di dettagli intimi e invalicabili.

Continua, infatti, Zottino:

Di fatto, quello che maggiormente dovrebbe farci riflettere è che alla violenza il nostro organismo si abitua: per non sentirsi minacciato ed adattarsi all’ambiente, un soggetto così continuamente esposto alla violenza, finisce per considerarla un fatto normale, un fenomeno che come un altro può accadere.

L’esposizione costante alla brutalità umana, dunque, avrebbe degli effetti – anche ingenti – sulla psiche individuale, portando gli individui a sviluppare una maggiore desensibilizzazione e aggressività nei confronti della violenza stessa.

Quando è il momento di fermarsi (e come)

In questi contesti – soprattutto se si svolge una professione legata alla divulgazione – risulta, perciò, essenziale sapere quando è giunto il momento di fermarsi e di fare un passo indietro, destinato a proteggere i soggetti coinvolti e i futuri fruitori della notizia.

Alcuni discrimini possono essere guidati dai seguenti quesiti: l’immagine o il video che contengono i dettagli più vividi possono davvero aggiungere qualcosa a quanto espresso mediante le parole? Quello che si intende condividere può ledere la dignità di uno dei soggetti coinvolti? I contenuti in oggetto potrebbero urtare la sensibilità di qualcuno? E, in caso affermativo, come è possibile porre degli argini affinché questo non accada?

Solo se guidati da domande consapevoli e sensibili – e non dalla volontà di aumentare visualizzazioni, pubblicità e click -, sarà possibile mutare il modo in cui le notizie vengono narrate ed educare il pubblico a un uso appropriato e tutelante delle stesse. Senza oltrepassare i confini del buonsenso e del rispetto.

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