Neurosessismo, gli stereotipi di genere delle neuroscienze tra mito e scienza

Il termine neurosessismo è stato coniato nel 2008 dalla filosofa della scienza Cordelia Fine, al fine di evidenziare le fallace di quel filone della ricerca neuroscientifica che sostiene esista una differenza intrinseca e biologica tra cervello maschile e cervello femminile, alla base della quale sarebbero, dunque, giustificati i dissimili atteggiamenti di donne e uomini - ormai stereotipati e calcificati nella società contemporanea. Ma è davvero così? Scopriamolo insieme.

Nonostante la molteplicità di cambiamenti e lotte sociali, gli uomini sembrano ancora derivare da Marte e le donne da Venere (per citare il bestseller di John Gray), soprattutto se si prendono in considerazione comportamenti, attitudini, propensioni di studio e professionali, desideri sessuali e, in generale, modi di stare al mondo.

Una differenza – quella di genere – che sembra trovare un fondamento nella struttura del cervello maschile e femminile, corroborando, così, l’idea che le “diversità” tra uomini e donne abbiano una base biologica, fissa, immutabile e imperitura. Questa convinzione ha anche un nome: neurosessismo, ossia il sessismo fondato, appunto, sulla presunta discrepanza esistente tra i due cervelli.

Ma questi ultimi sono davvero dissimili, o è tutto risultato di secoli di patriarcato e stereotipizzazioni? Scopriamolo insieme.

Che cos’è il neurosessismo?

Il termine neurosessismo è stato coniato nel 2008 dalla filosofa della scienza Cordelia Fine, al fine di evidenziare le fallace di quel filone della ricerca neuroscientifica che sostiene esista una differenza intrinseca e biologica tra cervello maschile e cervello femminile, alla base della quale sarebbero, dunque, giustificati i dissimili atteggiamenti di donne e uomini – ormai stereotipati e calcificati nella società contemporanea.

Nell’intento di smantellare la convinzione (errata) secondo cui differenze di carattere cerebrale condurrebbero a inevitabili difformità comportamentali e psicologiche, Fine e la neuroscienziata Gina Rippon – autrice del volume The Gendered Brain – hanno, perciò, evidenziato, come si legge su Il Tascabile, che gli studi stessi sul cervello di uomini e donne prendessero già abbrivio dalla certezza di una differenza anatomica, fonte e causa di quella di genere.

In sostanza, quindi, alcune ricerche neuroscientifiche formulano le proprie ipotesi proprio sugli stereotipi, i pregiudizi e i ruoli di genere, giungendo, così, a conclusioni che dimostrino quanto i comportamenti, i modi di fare e i pensieri di maschi e femmine siano innati e legati alla “natura”.

Il cervello di uomini e donne è diverso?

Ma il cervello degli uomini e delle donne è davvero diverso? In realtà, non poi così tanto. È, infatti, indubbio che quello femminile sia meno grande rispetto a quello maschile (rispettivamente 1,2 kg contro 1,35 kg), ma per un mero discorso di conformità rispetto al resto del corpo.

Una distinzione che, dunque, non inficia il quoziente intellettivo, né predisporrebbe maggiormente le donne all’empatia, alla dimensione di cura e a lavori improntati alla delicatezza e, al contrario, gli uomini a una acuita aggressività, a una predominanza di razionalità e intelletto e a posizioni professionali di leadership.

A cambiare sono, invece, altri elementi. Come precisa Michela Matteoli, direttrice dell’Istituto di Neuroscienze del CNR, docente di Farmacologia presso Humanitas University e responsabile del Neurocenter di Humanitas Research Hospital, su Il Sole 24 Ore:

Anche se ormai siamo abbastanza certi che non esistano differenze rilevanti nella struttura dei cervelli maschili e femminili, molti aspetti sono diversi tra i due sessi: gli ormoni, per esempio, e il sistema immunitario. Inoltre, anche in conseguenza di educazione e cultura, i comportamenti finiscono per essere in parte diversi.

Non è, allora, una varietà a livello cerebrale e biologico a determinare le differenze di genere, bensì il sistema socio-culturale e i significati, le codifiche e le interpretazioni che ha instillato nel corso del tempo a proposito di uomini e donne.

Il principio della plasticità cerebrale

In questo senso, infatti, si parla di “plasticità cerebrale”, ossia la capacità, da parte del cervello, di modificarsi e mutare in base agli stimoli derivanti dall’ambiente esterno, dalla cultura e dagli insegnamenti che ci vengono impartiti fin dalla prima infanzia, derivanti dalla famiglia, dalla scuola e dagli altri adulti di riferimento.

Come spiega sempre Matteoli:

Questo non ci stupisce: il nostro cervello è estremamente plastico, cioè si modifica in relazione agli stimoli esterni. Si parla di plasticità cerebrale. Inoltre, la maggior parte delle connessioni cerebrali (le sinapsi) si formano dopo la nascita, mentre il processo di rifinitura dei circuiti cerebrali si protrae addirittura fino oltre i 20 anni di età. L’ambiente quindi contribuisce alla costruzione dell’architettura cerebrale, e ha un ruolo molto importante per lo sviluppo neuro-psicologico.

E ancora:

È, pertanto, ovvio che il cervello risenta dell’influenza esercitata da famiglia, istruzione, cultura e società, soprattutto nei primi 10-15 anni di vita, quando il cervello è ancora in fase di formazione. Gina Rippon, docente all’Aston University di Birmingham, è tra le più importanti sostenitrici del concetto che le differenze di comportamento sono causate dal fatto che la società bombarda il cervello con stereotipi, e definisce “neurosessismo” la volontà di trovare differenze biologiche nei cervelli dei due sessi, tali da spiegare le differenze comportamentali.

A prescindere dal genere, pertanto, il cervello, in quanto organo particolarmente mutevole e plastico, si adatta all’ambiente circostante, e da questo attinge esempi di modalità di comportamento e pensiero. Mediante le nostre esperienze, azioni e relazioni, dunque, i nostri neuroni modificano costantemente il modo in cui comunicano tra loro, contribuendo a configurare senza sosta, a qualsiasi età e/o stadio della vita, la nostra struttura cerebrale.

Neurosessismo: mito o realtà scientifica?

Sulla base delle riflessioni finora avanzate, appare, quindi, evidente che il neurosessismo si fondi su basi fallaci, che riconducono a una presunta differenza anatomica i ruoli e i correlati stereotipi di genere – che incasellano le persone, spesso in maniera inconsapevole per queste ultime, in comportamenti e atteggiamenti determinati e immutabili.

Al contrario, come tenta di spiegare Sonia Reverter-Bañón, docente dell’Università Jaume I di Castellón, nel corso del tempo la neuroscienza si è avvalsa di cosiddetti “neuromiti“, ossia, secondo la definzione dell’OCSE:

Un malinteso, un’interpretazione errata o addirittura una “distorsione deliberata” di fatti scientifici con uno scopo specifico.

Il neurosessismo, quindi, affonderebbe le proprie radici in una serie di idee erronee e incongruenti, come dimostrano i risultati di dubbia qualità, le conclusioni raffazzonate, le ipotesi aporetiche e le metodologie sbagliate con cui si sono svolte le suddette ricerche scientifiche.

Le quali, come abbiamo visto, anziché basarsi sulle ingerenze del contesto culturale, le aspettative associate ai generi e le credenze correlate, sono state guidate dalla convinzione dell’esistenza di presunte differenze anatomiche e biologiche e dai pregiudizi che ne sono derivati, conducendo, in questo modo, i risultati delle analisi verso la corroborazione di ruoli e stereotipi dominati dal binarismo di genere.

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