Nel 1963, Julie Mannix era una debuttante di Philadelphia di 19 anni con un roseo futuro davanti. Sei mesi dopo, era ricoverata in manicomio per volontà della sua famiglia. La sua unica colpa? Essere incinta. I genitori speravano che dentro le mura dell’ospedale psichiatrico avrebbero potuto nascondere la gravidanza, impedendo al nipote bastardo di venire al mondo. Sebbene gli aborti all’epoca fossero illegali, infatti, come racconta Julie in una testimonianza su Redbook, le minacce alla salute fisica o mentale della madre erano gli unici motivi su cui si poteva agire.

Quando mia madre mi ha informato che ero incinta – qualcosa che il ginecologo di famiglia aveva rivelato a lei e non a me – mi ha anche detto che lui, convenientemente, mi aveva diagnosticato una grave depressione. Nei nostri circoli della società di Philadelphia, eri considerato affascinante e eccentrico se eri portato a sbalzi d’umore estremi, depressioni romantiche e persino a uno strano tentativo di suicidio. Dare alla luce un figlio bastardo, tuttavia, era imperdonabile. Sebbene mia madre fosse una fedele cattolica, si era così convinta che un aborto avrebbe salvato il mio futuro che era in grado di giustificare un atto che normalmente avrebbe aborrito.

Dopo il ricovero, l’aborto sarebbe stato perfettamente legale, ma quello che i genitori di Julie non avevano previsto era che lei rifiutasse di firmare i documenti. Non per motivi morali, racconta, ma perché voleva che il frutto della sua storia d’amore con Frank von Zerneck – l’uomo con cui aveva avuto una relazione a Long Island per poi scoprire che era sposato – vivesse. Era così ferma su questa decisione che ha continuato a opporsi all’aborto anche quando dalla clinica privata i genitori l’hanno spostata forzatamente all’ospedale statale. Qui, pochi giorni dopo essere stata ricoverata nel reparto femminile, ha ricevuto una lettera:

Cara figlia, è ovvio che sei così agitata da non essere in grado di pensare chiaramente. Tuo padre e io abbiamo terribilmente paura che tu possa provare a farti del male. Pertanto, è stato stabilito che rimarrai dove sei fino a quando questa terribile prova non sarà finita. Ti penseremo ogni giorno. Madre

Eppure, Julie non era pazza, né depressa, né pericolosa per se stessa o gli altri: avrebbe potuto passare la gravidanza in una casa per ragazze madri e poi dare il piccolo in adozione. L’ospedale psichiatrico, dice, è stata una punizione. Una punizione per aver rifiutato di abortire.

Nella stanza «bianca e sporca, piccola», in cui siede in silenzio, inizia a credere davvero di essere pazza. Per rimanere ancorata alla realtà, pensa alla figlia che porta in grembo che immagina come una bambina, e alla vita che vorrebbe darle. Una vita che, però, realizza, non potrà mai essere sua. Dopo sei mesi nell’ospedale statale, il 19 aprile 1964 dà alla luce Aimee Veronica in un ospedale di beneficenza cattolica vicino a Filadelfia. Aimee significa “amato”. Veronica significa “portatrice di vittoria”.

Mi è stato permesso di vederla solo una volta, da un metro e mezzo di distanza, prima di arrendermi. Aveva il mio naso, il mento di suo padre e i grandi occhi marroni di mia madre. Come ho firmato i documenti dell’adozione, il mio cuore si è squarciato. Ho posato la penna, mi sono voltata e, con le gambe tremanti, ho lasciato la mia bambina dietro di me.

Negli anni, però, Julie non ha smesso di pensare ad Aimee e ha cercato più volte di mettersi in contatto con lei tramite l’ospedale, che ha sempre rifiutato di rivelare la famiglia d’adozione. Caduta in una grave depressione, dopo il parto si è trasferita a New York per diventare un’attrice. Qui, non solo ha realizzato il suo sogno, ma ha riallacciato i rapporti con Frank, che aveva divorziato mentre lei era ricoverata e aveva cercato di contattarla spesso nonostante l’ostracismo dei suoi genitori.

Nel 1965 si sono sposati – un atto per cui la famiglia di Julie l’ha diseredata – e hanno avuto due figli. Il pensiero della loro prima figlia, però, non è mai sfumato: «ogni anno, il 19 aprile, io e Frank festeggiavamo il compleanno di Aimee, la cui data avevamo incisa all’interno delle nostre fedi nuziali».

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