Come i racconti e le testimonianze ci hanno purtroppo dimostrato, la furia nazista non ha risparmiato nessuno, neppure i neonati. Anzi, spesso ai bambini appena nati e alle loro madri veniva riservato un orrore ancor più tremendo, come vi abbiamo raccontato in questo articolo di qualche tempo fa.

In mezzo a tanta abominazione, c’è stato però anche spazio per storie di grande umanità, come quella della dottoressa Gisella Perl, che proprio nel campo di concentramento di Auschwitz, dove era stata deportata, dovette compiere una scelta dolorosa ma, in quel momento, indispensabile.

Chi era Gisella Perl

Nata nel 1907 a Sighet, una piccola città dell’Ungheria che in seguito sarebbe entrata a far parte della Romania, Gisella Perl è una vera e propria studentessa modello, che si diploma, unica donna ebrea nel suo corso, a soli 16 anni. Di famiglia benestante, ha la possibilità, come tutti i suoi fratelli, di studiare all’estero, e lei sceglie la Germania.

Lì, nonostante l’iniziale opposizione del padre che teme possa perdere la sua fede, Perl decide di studiare medicina, e resta a Berlino fino a quando, nel 1933, Adolf Hitler sale al potere.

Gisella Perl è costretta a tornare in Ungheria, e lì svolge la sua professione assieme al marito, chirurgo, Ephraim Krauss; tutto procede per il meglio, nella più completa normalità, fino al momento, nel marzo del 1944, in cui la Germania invade l’Ungheria, che pur essendo sua alleata era in procinto di accordarsi con gli Stati Uniti. I rastrellamenti, come in ogni altra città invasa dai nazisti, non risparmiano nessuno, e così pure Gisella Perl, assieme al marito e al figlio e alla famiglia d’origine, viene mandata nel ghetto di Sighet; solo la figlia Gabriella Krauss riuscirà a sfuggire all’interamento, trovando rifugio presso una famiglia non ebrea.

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Il lavoro ad Auschwitz

In poco più di due mesi oltre 440 mila ebrei ungheresi vengono deportati ad Auschwitz, e tra loro, subito separata dal marito e dal figlio, c’è anche Gabriella Perl, assegnata all’ala femminile di Birkenau e all’ospedale del Campo con il numero 25404.

Lì Perl deve combattere con le condizioni insalubri del luogo, e nonostante tutto cerca di curare come meglio può le donne detenute; è il dottor Joseph Mengele in persona a chiederle di segnalargli le donne incinte, apparentemente per portare in un altro campo dove avrebbero ricevuto cure più adeguate.

All’inizio gli credevo – dirà anni dopo – ma in seguito ho saputo che le usava insieme a portatori di handicap fisici e gemelli, per i suoi esperimenti medici disumani. Una volta finito, sono stati tutti uccisi nelle camere a gas.

È in quel momento che Gisella Perl si rende conto che il destino delle donne in gravidanza, nel lager, è segnato: sono tutte segnate per finire alla camera a gas, e i loro neonati non hanno sorte migliore.

Lei stessa assiste a scene tremende, come scriverà nel suo libro di memorie Ero un dottore ad Auschwitz:

Erano circondate da un gruppo di SS, uomini e donne, che si divertivano a dare a queste creature indifese un assaggio d’inferno, dopodiché la morte era un’amica gradita… Furono picchiate con mazze e fruste, dilaniate dai cani, trascinate per i capelli e prese a calci nello stomaco con pesanti stivali tedeschi. Poi, quando sono crollate, sono state gettate nel crematorio – vive.

Mai più una donna incinta ad Auschwitz

Gisella Perl prende a quel punto una decisione dolorosissima ma necessaria: non ci sarebbe stata più una sola donna incinta ad Auschwitz.

La sera, operando a lume di candela nelle stanze dell’ospedale di fortuna, o persino nelle baracche del campo, Perl pratica circa tremila tra aborti e infanticidi. Un gesto estremo, ma il solo in grado di salvare la vita a quelle povere donne, per dare loro la speranza di tornare a essere madri in futuro.

Perl lo fa mettendo a rischio la sua stessa vita, rinunciando all’etica e resistendo alle esitazioni e ai rimorsi di coscienza, consapevole che fosse la sola via d’uscita per le prigioniere del campo.

Ho preso il corpicino caldo tra le mani, ho baciato il viso liscio, ho accarezzato i lunghi capelli, poi l’ho strangolato e ho seppellito il suo corpo sotto una montagna di cadaveri in attesa di essere cremati.

Dice descrivendo una delle volte in cui è stata costretta a togliere la vita a un neonato.

Sul finire della guerra Gisella Perl viene trasferita a Bergen Belsen; è alle prese con l’ennesima nascita clandestina quando sente le porte aprirsi alle sue spalle. Trema, pensando di essere stata scoperta, ma in realtà è l’esercito britannico venuto a liberare il campo. È il 5 aprile del 1945. Perl chiede quindi a un soldato acqua pulita, un antisettico e delle bende, oggetti che fino a quel momento erano stati un lusso inconcepibile.

Perl resta nel campo per curare i sopravvissuti allo sterminio riappropriandosi della sua professione di medico, poi parte alla ricerca della sua famiglia, venendo a sapere che, purtroppo, tutti, i suoi genitori, suo marito, suo figlio, sono morti nelle camere a gas.

Devastata dai ricordi e dal dolore per la perdita della famiglia, Gisella Perl tenta il suicidio, ma si salva, e quindi decide di partire in giro per il mondo per portare la sua testimonianza dell’orrore di Auschwitz. Nel 1948 pubblica le sue memorie, il già citato Ero un medico ad Auschwitz, ma non potrà mai avere la soddisfazione di vedere Joseph Mengele, il Dottor Morte, messo a processo, perché vivrà fino alla fine dei suoi anni da uomo libero in Sud America.

Nel ’48 Perl si ferma negli Stati Uniti, dove riprende a fare la ginecologa; ogni volta, prima di entrare in sala parto, prega in silenzio:

Dio, mi devi una vita, un bambino vivo.

Nel 1978 Perl si trasferisce in Israele, dove si riunirà con la figlia, e lavorare come volontaria in una clinica ginecologica fino alla morte, nel 1988.

 

 

 

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