La prima volta che ho subito una molestia da parte del mio capo non sono riuscita a reagire. O meglio, non sono riuscita a reagire come avrei voluto – e dovuto. Mentre dentro la mia testa si formava un «ma sta succedendo davvero?» la mia faccia, senza che lo volessi, si è aperta in un sorriso. Fintissimo, è vero, ma pure sempre un sorriso. Eppure, in quella scena non c’era niente di divertente. Né nelle scene che coinvolgevano molte delle mie colleghe.

Sono passati anni e le “battute” sono continuate, posto di lavoro dopo posto di lavoro, mentre un «dài, spogliati in cam» e un «facci vedere le tette» seguivano un «mamma mia con questa maglietta che ti farei», «quella è porca eh», «con questi capelli ti fa venire voglia di portarla in ufficio e farle un bel ripasso» e un «ti ho messo la scrivania grossa. Ti piace grosso eh?».

Ogni volta mi ritrovavo con un sorriso tirato sulla faccia, e morivo dentro. Ogni. Singola. Volta. Sapevo che ridere era sbagliato, che avrei dovuto reagire, rispondere, esplodere fuori come esplodevo dentro. Ma, per anni, non l’ho fatto. E non che sia una persona remissiva, anzi. Perché, allora, ridevo?

Secondo l’ISTAT, il 43,6% delle donne tra i 18 e i 65 anni ha subito almeno una forma di molestia nel corso della propria vita: tra queste, oltre 1 milione e 400 mila (quasi il 9%) ha dichiarato di averla subita sul posto di lavoro. A livello europeo, «la violenza e le molestie da parte di terzi sul lavoro riguardano dal 5% al 20% dei lavoratori», secondo i risultati della relazione “Workplace Violence and Harassment: a European Picture”.

Quello delle molestie sul lavoro, però, è un fenomeno di cui è difficile tracciare effettivamente i contorni, sottostimato prima di tutto a causa di una mancanza di consapevolezza delle stesse vittime dovuta anche alla difficoltà di rispondere chiaramente alla domanda «che cosa è una molestia?». Solo la pacca sul sedere, la violenza fisica, il ricatto sessuale o anche tutte quelle che ci ostiniamo a chiamare battute?

Secondo l’articolo 26 del decreto legislativo 11 aprile 2006, n. 198 (il cosiddetto “codice delle pari opportunità tra uomo e donna”) sono molestie «quei comportamenti indesiderati a connotazione sessuale, espressi in forma fisica, verbale o non verbale, aventi lo scopo o l’effetto di violare la dignità di una lavoratrice o di un lavoratore e di creare un clima intimidatorio, ostile, degradante, umiliante o offensivo». Una definizione su cui concorda anche il Codice di Condotta Europeo, che dice le stesse cose con parole leggermente diverse.

La legge, quindi, ci dice due cose fondamentali sulle molestie: la prima è che non c’è bisogno che ci sia un contatto fisico, la seconda – più importante – è che non conta l’intenzione di chi esegue la molestia, ma l’effetto che ottiene sulla vittima. Il mio capo credeva sicuramente di essere divertente ripetendomi di spogliarmi in videochiamata davanti ai colleghi – anche dopo avergli detto chiaramente quanto fosse inaccettabile il suo comportamento – ma il clima che ha creato per me è stato degradante, umiliante e offensivo.

Ci dice anche altro, però, la legge: non solo che la lavoratrice o il lavoratore che sporge denuncia per molestie non può essere licenziatə né penalizzatə in altro modo (legge 27 dicembre 2017, n. 205, comma 3-bis), ma anche che è un obbligo del datore di lavoro «assicurare condizioni di lavoro tali da garantire l’integrità fisica e morale e la dignità dei lavoratori, anche concordando con le organizzazioni sindacali dei lavoratori le iniziative, di natura informativa e formativa, più opportune al fine di prevenire il fenomeno delle molestie sessuali nei luoghi di lavoro» (comma 3- ter dell’articolo 26 del codice delle pari opportunità).

Ma allora perché è così difficile smette di sorridere e dire «basta»?

Perché, nella maggior parte dei casi, in quei momenti anni di «sii educata», «sii gentile», «sorridi», «non rompere le palle», si uniscono alle voci che – dentro e fuori la tua testa – ti ripetono «ma figurati se dice sul serio», «ma non lo fa con malizia», «dai, vuole solo scherzare». Perché percepisci un malessere, ma pensi che magari sei tu ad essere suscettibile e allora eviti di “farne un dramma”.

Perché tutti i colleghi e le colleghe, intorno a te, ridono. Perché nessun uomo vuole essere meno maschio e troppe donne sperano che facendo così saranno ammesse nel club di quelli che contano. E allora nessuno alza la testa, e la voce, per ricordare che non è normale che sia normale. Perché, se a parlare è il tuo capo, è lui ad avere il potere, e a te quel lavoro serve.

Perché in alcuni casi, anche di fronte a una richiesta esplicita di smetterla le “battute” continuano. Perché non vorrai mica fare l’isterica intorno a te tutti continuano a ripeterti “e fattela una risata”? Perché ti rendi conto di quanto sia grave quello che ti succede quando leggi lo sbigottimento sui volti delle persone che non credono a quello che racconti.

La verità è che giorno dopo giorno ci insegnano a stare quietamente al nostro posto, ci insegnano che essere belle è un valore, che esistiamo per essere guardate dagli uomini e che il loro apprezzamento è quello a cui dobbiamo aspirare, ci insegnano che il nostro corpo è l’unica merce che abbiamo da vendere, che il nostro posto è alla mercé di chi del nostro corpo, della nostra sessualità, della nostra dignità può fare quello che vuole. E non sempre perché voglia qualcosa da noi, ma perché può farlo: perché è uomo*, perché è gerarchicamente superiore, perché ha il potere, e lo usa.

Si dice sempre che «una risata ci salverà». Ecco, in questo caso non è vero. Quella contro le molestie sul lavoro è ancora una battaglia dura e lunga. Intanto, però, partiamo da qui: smettiamola di ridere.

*sempre secondo l’ISTAT, gli autori delle molestie a sfondo sessuale risultano in larga prevalenza uomini, non solo nei confronti delle vittime donne (97%) ma anche in quelli delle vittime uomini (85,4%).

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