Abilismo, inspiration porn, persone disabile o persona con disabilità?

Quando si entra nell’argomento disabilità le idee sono sempre piuttosto confuse, il politically correct a tutti i costi costantemente in agguato, e il panico rispetto a come riferirsi a qualcun* che presenta una disabilità senza cadere nell’ablesplaining dietro l’angolo.

Forse, per dipanare la matassa di dubbi e perplessità e acquisire quelle skills necessarie per parlare con cognizione di causa della disabilità è sufficiente lasciarsi guidare da chi conosce da vicino l’argomento e si occupa proprio di sensibilizzare ed educare le persone alla consapevolezza. Nel nostro caso, abbiamo deciso di fare una chiacchierata con Maria Chiara ed Elena Paolini, due sorelle di 29 e 25 anni, entrambe disabili (fanno uso delle carrozzine elettriche), digital creator del blog Witty Wheels, e della pagina Instagram omonima, in cui parlano di disabilità in chiave femminista e di abilismo, analizzando quindi le forme di discriminazione e lo stigma verso le persone disabili.

Maria Chiara ed Elena fanno formazione e consulenze sull’argomento, già dal 2015, quando ancora in Italia il concetto di abilismo era lontano dall’essere conosciuto.

La prima domanda riguarda proprio questa concezione della disabilità in chiave femminista. Cosa significa e, soprattutto, che differenza c’è rispetto ad affrontarla in chiave femminile?

Non sono approcci in contrapposizione, in realtà – ci dicono – Noi siamo donne disabili, e chiaramente le varie caratteristiche che formano la nostra identità, compreso il genere, influenzano la nostra esperienza. Al di là del livello individuale di noi due, però, ci interessa fare un discorso più collettivo sulle persone disabili nella nostra società. Un approccio femminista, inoltre, è un approccio politico che lavora per contrastare le oppressioni e le ingiustizie decostruendo ad esempio le narrazioni che rendono alcune persone ‘subalterne’ e le condizioni materiali che ne limitano l’espressione“.

Voi parlate anche di come la televisione e, più in generale, i media facciano fatica ad abbandonare un linguaggio paternalistico e quei doppi standard fra persone con disabilità e persone senza disabilità. Perché tanta difficoltà e come superare queste rappresentazioni stereotipate?

Viviamo in una società abilista, quindi molto semplicemente le narrazioni abiliste ‘funzionano’. O meglio, sono narrazioni rassicuranti e assodate, quindi vengono riproposte ancora e ancora. Manca la volontà di metterle in discussione e portarne avanti di nuove. Un’altra parte del problema è la scarsa partecipazione delle persone disabili nella creazione dei contenuti, a causa della segregazione e della mancanza di opportunità“.

Parliamo di inspiration porn. Vi è mai capitato di esserne vittime? 

L’inspiration porn consiste nel descrivere le persone disabili come esempi per gli altri a prescindere, solo perché sono disabili. È una rappresentazione problematica perché si basa sull’idea che la vita delle persone disabili sia tragica e che viverla significhi essere eroi. Esprime le basse aspettative diffuse nei confronti di chi è disabile.

Ci è capitato di essere descritte come persone molto coraggiose che hanno ‘tanto da insegnare’ solo perché siamo disabili. È sminuente ed è una forma di oggettificazione, qualcosa di alienante. Quando ci è successo abbiamo reagito come ci permetteva il momento, magari aggiustando la narrazione oppure ridendone con gli amici. Non c’è un modo giusto per reagire, magari quel giorno non hai voglia di educare il primo venuto e va benissimo così”.

È come se ci fosse una sorta di “gerarchia dell’abilismo”, un tema che voi affrontate in alcuni vostri post, secondo cui alcune disabilità sono più o meno discriminate in base alla loro gravità. Ma questo cliché pesa più sulle persone con disabilità o su quelle senza che si aspettano un determinato tipo di atteggiamento da chi ha disabilità giudicate “meno gravi” rispetto ad altre?

L’abilismo pesa sempre di più sulle persone disabili che su quelle non disabili. Sono le prime quelle che subiscono l’abilismo in prima persona, con conseguenze concrete. Avere determinati pregiudizi e rappresentazioni stereotipate non ti cambia la vita in modo significativo.

Si può parlare di una ‘gerarchia della disabilità’ perché le persone con disabilità considerate più impattanti sono più discriminate. Insomma, chi ha disabilità cognitive è più discriminato di chi ha disabilità fisiche; chi non è autosufficiente più di chi è autonomo e così via. Nella pratica ad esempio, una persona in carrozzina manuale riceverà in genere meno stigma e basse aspettative rispetto a una in carrozzina elettrica non autosufficiente“.

Parliamo di un’altra questione “spinosa”: person-first e identity-first language: quindi, persone disabili o persone con disabilità? Esiste davvero una differenza concettuale tra i termini e perché è importante usare uno o l’altro?

“In inglese si parla di person-first (‘people with disabilities’) e identity-first (‘disabled people’) perché in quella lingua nel primo caso viene prima la parola ‘persona’ e nel secondo caso viene prima la parola ‘disabile’. Per alcune persone non c’è differenza concettuale e quindi li usano in modo intercambiabile. Per altre la differenza concettuale c’è, per vari motivi. Comunque sono entrambi accettati, l’importante è rispettare le preferenze individuali.

Una motivazione abbastanza frequente nell’usare ‘persona con disabilità’ è che è necessario vedere la persona prima di vedere la disabilità, insomma fare in modo che la disabilità non ‘nasconda’ la persona. Invece chi usa ‘persona disabile’ spesso afferma che non c’è motivo di specificare che siamo persone, prima. ‘Disabled people’ è molto usato nei contesti angloamericani dove c’è maggior fermento culturale su questi temi, più gruppi di attivismo, meno oppressione in generale a causa di politiche più favorevoli: le organizzazioni condotte da persone disabili usano ‘persona disabile’. Per quanto riguarda noi personalmente, usiamo ‘persona disabile’ perché ‘persona con disabilità’ ci sembra in qualche modo confermare lo stigma intorno alla disabilità. Perché, infatti, sentiamo il bisogno di dire che una persona non è la sua disabilità? Perché questa caratteristica dovrebbe impedire di ‘vedere la persona’? Il doppio standard tra disabilità e altre caratteristiche si può comprendere meglio con un paragone speculare. Si dice ‘persone gay’, non ‘persone con omosessualità’. Bisognerebbe riflettere sul perché solo sulla disabilità si fa questo discorso per cui usare ‘disabile’ come aggettivo nasconderebbe la persona“.

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