Colorblind casting: davvero non considerare il colore della pelle non è razzista?

Se a un primo sguardo la scelta di non dare importanza al colore della pelle nella selezione degli attori può sembrare un'operazione virtuosa di inclusione e un inno alla diversità, a una più profonda analisi pare nascondere delle importanti implicazioni, tra cui il rischio di annullare e negare le specificità della storia e la cultura di quelle stesse minoranze che intende invece celebrare.

Il recente successo mondiale della serie targata Shonda Rhimes dal titolo Bridgerton ha riaperto il dibattito sulla questione del colorblind casting. La serie affronta un tema classico della storia inglese, il mondo dell’alta società londinese durante il periodo della Reggenza, con un approccio completamente nuovo attraverso l’inserimento nella trama e in ruoli di primo piano di personaggi neri e storie non convenzionali che abbracciano i valori della diversità.

L’operazione, che al primo sguardo non può che sembrare lodevole e ricca di vantaggi, apre però a ben più profondi interrogativi: è davvero un beneficio non considerare il colore della pelle nella trasposizione di storie del passato sul grande e piccolo schermo in nome di una maggiore inclusione o è forse anche questa una mossa controproducente, che arriva a ignorare la razza e ad appiattirne storia e radici profonde? Sono in molti a pensarla in questo secondo modo.

Vediamo la questione nel suo insieme, attraverso celebri esempi e le opinioni contrapposte a riguardo.

Colorblind casting: cosa significa?

Come accennato, il colorblind casting è la scelta di registi e produttori di premiare i valori della diversity e dell’inclusione e di non considerare alcuni aspetti nel processo di selezione degli attori, a dispetto di ogni criterio di accuratezza storica e verosimiglianza fisica con i personaggi dell’opera originaria che si va a mettere in scena.

In particolare, si riferisce alla esplicita decisione di non considerare nel processo di casting degli attori il colore della pelle, l’etnia e, in senso lato, la coincidenza con il genere e l’orientamento sessuale dei personaggi della storia.

Si tratta di una mossa che ha radici nel tempo ma che ha trovato un sempre maggiore impiego negli ultimi decenni, grazie anche ad alcune celebri personalità che l’hanno adottata per favorire una cultura dell’inclusione a vantaggio delle categorie sottorappresentate e maggiormente discriminate nell’industria del cinema, così come nella realtà.

Un nome su tutti è quello di Shonda Rhimes, produttrice e sceneggiatrice nera, creatrice di molte serie TV, da Grey’s Anatomy a Scandal, fino, appunto, all’ultimo prodotto, Bridgerton, in cui l’inclusione e la diversità dei membri del cast sono ormai una ferrea regola.

Colorblind casting: esempi di serie e film 

Come anticipato, è stata proprio l’operazione Bridgerton a puntare l’attenzione su un fenomeno che è però ben più datato. La differenza rispetto ai classici prodotti targati Shonda Rhimes risiede nel fatto che in questo caso siamo di fronte a un period drama, che racconta un preciso periodo storico, la Reggenza inglese, in cui i protagonisti principali non sono quelli che ci aspetteremmo di trovare in una facoltosa famiglia londinese di inizio Novecento: metà del cast, infatti, è rappresentato da attori non bianchi.

Questa pratica, oggi sdoganata, risale però a molti anni fa: nel 1958, ad esempio, il russo Dottor Živago veniva interpretato dall’egiziano Omar Sharif, mentre nel 1973 il Giuda Iscariota di Jesus Christ Superstar era l’attore afro-americano Carl Anderson.

Ma la lista è lunga. Ecco i più celebri esempi:

  • Nel film del 1993, Il rapporto Pelikan, l’attore afro-americano Denzel Washington interpreta un personaggio descritto come bianco nel romanzo originale di John Grisham.
  • Nel film Le ali della libertà (1994), tratto dal racconto di Stephen King dal titolo Rita Hayworth e la redenzione di Shawshank, il personaggio Red, descritto nel romanzo come irlandese, viene interpretato da Morgan Freeman.
  • Halle Berry nel 2004 interpreta una Cat Woman nera.
  • Tra i più recenti, compaiono anche una Hermione nera, interpretata dall’attrice di origine africana Noma Dumezweni, nella versione teatrale di Harry Potter dal titolo Harry Potter and the Cursed Child (2016), anche se per ammissione della stessa autrice nel libro non è mai specificata l’etnia del personaggio.
  • Del 2015 è il dramma Hamilton, ispirato alla vita di Alexander Hamilton, uno dei padri fondatori degli Stati Uniti, che viene interpretato da un attore portoricano, Lin-Manuel Miranda.
  • Il film recentissimo sulla storia di David Copperfield per la regia di Amrando Innucci ha per  protagonisti due attori non bianchi: Dev Patel e Rosalind Eleazar.
  • La trasposizione cinematografica del cartone Disney La Sirenetta, vedrà una Ariel nera, interpretata dall’attrice Halle Bailey.

Colorblind casting: pro e vantaggi 

Senza dubbio, queste operazioni hanno il merito di favorire una maggiore inclusione e di dare voce e rappresentare culture ed etnie che sono sempre state quasi del tutto escluse dalla produzione cinematografica e dalla narrazione che Hollywood, e l’industria del cinema in generale, ha sempre veicolato.

La racial diversity di cui si è fatta portavoce Shonda Rhimes attraverso i suoi prodotti, ad esempio, incarna e contribuisce a sostenere a sua volta il cambiamento culturale che movimenti come Black Lives Matter hanno generato.

Del resto, questo meccanismo è sorto anche in conseguenza dei moltissimi esempi di whitewashing verificatisi nel mondo teatrale e cinematografico, a tutti gli effetti operazioni di razzismo, mascherate da fini artistici più o meno discutibili.

Sono esempi di whitewashing la blackface di Lawrence Olivier in Otello, la non latina Carey Mulligan nel film di Nicolas Winding Refn, Drive, basato sull’omonimo romanzo di James Sallis, Angelina Jolie in Wanted, sebbene il personaggio sia stato ricalcato su Halle Berry, un non indiano Benedict Cumberbatch in Star Trek, e – caso che più di tutti ha suscitato polemiche – la non asiatica Scarlett Johansson per interpretare addirittura la protagonista di un manga, la Mira di Ghost in the Shell.

Le critiche al colorblind casting 

La prima critica che viene mossa al colorblind casting è che, scegliendo persone di etnia diversa per interpretare storie del passato, si possa finire per comprometterne l’accuratezza storica.

Una critica ben più profonda è che così facendo, si vada in realtà a cancellare la storia e la cultura afroamericana, o delle altre minoranze che si scelgono di privilegiare. E cioè, se da un lato può sembrare un’operazione di inclusione, dall’altro ciò che emerge nei fatti è che a vincere sia ancora una volta una storia bianca, con un twist nero.

I produttori e gli sceneggiatori che hanno optato per questa operazione si sono difesi sostenendo che in questo modo, oltre a garantire una maggiore rappresentazione da un punto di vista etnico e razziale, contribuiscono a far lavorare molte più persone non bianche. Ma il punto è che non basta portare sullo schermo più persone di diverse etnie, se il risultato è l’ennesima rappresentazione in salsa diversa di una storia figlia della cultura bianca occidentale.

Del resto, nello stesso Bridgerton – e nei libri di Julia Quinn da cui è tratto – i temi sul confitto etnico e sui problemi di integrazione, pur presenti all’epoca, non sono minimamente toccati: ci si concentra solo sull’aspetto storico-romantico delle relazioni nell’Inghilterra dell’Ottocento. Un tema che abbiamo già visto tante volte, e anche in modo magistrale, come ad esempio, nella recente serie Downton Abbey, il cui creatore, Julian Fellowes, è stato però accusato di escludere dalla produzione le minoranze.

“Penso si debba creare qualcosa di credibile”, rispondeva lui, cercando di difendersi dall’accusa di assenza di diversity e sostenendo come nello Yorkshire, tra il 1912 e il 1926 – periodo in cui è ambientata la serie – fosse praticamente impossibile incontrare persone nere.

La debolezza di queste operazioni sta tutta qui: una storia bianca non parla di esperienze nere, ma impoverisce, ignora e spesso cancella le specificità della cultura e delle vite non bianche.

Già nel 1996 arrivava una critica a questa pratica da parte del commediografo afroamericano August Wilson, che non vedeva affatto di buon occhio gli impersonali adattamenti di copioni bianchi, auspicando al contrario alla rivendicazione della propria narrazione con storie nuove e su misura. Questo il parere in merito del celebre commediografo:

Una produzione nera di qualunque opera pensata per attori bianchi come investigazione della condizione umana con specifiche della cultura bianca ci toglie la nostra umanità, la nostra storia e il bisogno di guardare al mondo con le basi culturali su cui noi poggiamo come neri americani. È un’aggressione alla nostra presenza e alla nostra difficile ma dignitosa storia in America, è un insulto alla nostra intelligenza, ai nostri commediografi e ai contributi che abbiamo dato alla società e al mondo intero.

Lo sostiene anche Diep Tran, un giornalista specializzato in diversità ed etica della rappresentazione:

Il colorblind casting è pericoloso nello stesso modo in cui è pericolosa la frase: “Non vedo la razza'”. Perché nega gli ostacoli strutturali molto reali che bloccano gli attori di colore dall’ottenere le stesse opportunità degli attori bianchi – come la bassa retribuzione nell’industria teatrale, la mancanza di ruoli etnicamente specifici che gli attori di colore possono interpretare e i pregiudizi inconsci da parte dei teatri bianchi e dei direttori del casting.

Al colorblind casting viene invece contrapposto il colour-conscious casting, un’operazione culturale che incoraggia una scrittura più consapevole che sia in grado di creare nuove storie su misura per le diverse realtà culturali e che siano da queste degnamente rappresentate e valorizzate.

Un caso perfettamente riuscito in questo senso è la serie TV This is us, in cui il racconto della storia e della cultura afroamericana si innesta perfettamente all’interno di una cornice narrativa che vede al centro una famiglia bianca occidentale: le due realtà messe a confronto in modo credibile e completamente verosimile creano una storia interrazziale all’interno della quale le due culture ne escono fortificate e completamente valorizzate.

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