Il 25 settembre 2005 un ragazzo rientra a casa dopo aver trascorso una serata come tante con gli amici. Viene fermato da una pattuglia della polizia per quello che, a tutti gli effetti, sembra un normale controllo ma, per chissà quale motivo, la situazione degenera.

Alle 11 del mattino bussano alla porta della casa di una normale famiglia ferrarese: “Guardate che vostro figlio Federico è morto”.

Patrizia Moretti e Lino Giuliano Aldrovandi, genitori di quel ragazzo appena diciottenne, non ci possono credere: com’è possibile che Federico sia morto, cosa significa?

Sul rapporto del 118 giunto sul posto, in via Ippodromo, a Ferrara, si legge che il ragazzo è stato trovato “riverso a terra, prono con le mani ammanettate dietro la schiena […] incosciente e non rispondeva”; la causa della morte, arresto cardio-respiratorio e trauma cranico-facciale”Quando papà e mamma vedono, all’obitorio, le 54 lesioni ed ecchimosi presenti sul corpo del loro Federico, faticano a credere all’ipotesi del malore. Inizia così uno dei casi di cronaca giudiziaria più tristemente famosi del nostro Paese, quello di Federico Aldrovandi.

Lino Aldrovandi, il suo ricordo di Federico

Nel 2020, a distanza di pochi giorni dall’anniversario della morte di Federico suo padre, Lino Aldrovandi ha voluto condividere con noi un dolce ricordo di suo figlio.

 Quello di Federico è un ricordo meraviglioso che terrò appoggiato vicino al mio petto, ad accarezzarmi il cuore fino all’ultimo dei miei giorni con un nodo eterno alla gola. Era luce, era gioia, era speranza. I suoi professori di scuola mi parlavano di un ragazzo educato e riservato e buono, rispettoso di tutti. Tanto per dire come fosse Federico, un giorno nella sua cameretta, qualche mese prima che me lo uccidessero, stavo per schiacciare un ragno in un angolo del muro con una ciabatta, ma lui me lo impedì dicendomi: ‘Papà fermati, perché vuoi uccidere quel ragnetto, che male ti fa, lascialo vivere’.

Ecco Federico, lo voglio ricordare così, semplice, umano e meraviglioso. Amava la musica, amava gli animali, credeva nell’amicizia, credeva nel futuro. Mi avrebbe fatto accarezzare dei nipotini. Lo hanno ucciso senza una ragione le persone (4 poliziotti in divisa) che mai e poi mai mi sarei aspettato che lo facessero, loro custodi della sacralità della vita. Ci hanno impedito di crescere insieme. Quando tornava tardi la notte, nelle volte che gli veniva concesso di uscire, in punta di piedi mi avvicinavo alla porta della sua cameretta per ascoltare il suo respiro per pregare in silenzio che Dio gli avesse sempre protetto la vita.
Quella maledetta domenica mattina non fu così.

Lino Aldrovandi ha avuto in quell’occasione anche un pensiero per Marina Conte e Valerio Vannini, genitori di Marco, ucciso nel 2015 mentre si trovava a casa dei suoceri, per la cui morte proprio Antonio Ciontoli, il suocero, è stato condannato a 14 anni per omicidio volontario, mentre gli altri membri della famiglia, compresa la fidanzata di Marco, Martina, dovranno scontare più di 9 anni per omicidio colposo con dolo eventuale.

Che dire. Le mamme, le donne, forse hanno qualcosa in più di noi uomini. La forza, il coraggio, l’amore eterno di quel cordone ombelicale che non conosce distacco. Concordo con la famiglia  di Marco che chi l’ha ucciso con dolo, oltre a chiedere perdono a se stesso dovrà farlo soprattutto con Marco. Non esistono condanne giuste od eque. A volte penso che il giudice più severo rimanga la propria coscienza. La vera giustizia sarebbe quella di poter riabbracciare ancora per una volta i nostri figli. Quel dolore senza fine invece ci accompagnerà per il resto dei nostri giorni. Quella penso sia veramente una condanna. Un abbraccio a Marina e alla sua famiglia con un dolce pensiero a Marco magari da qualche parte con Federico, felici e sereni.

La storia di Federico Aldrovandi

Federico Aldrovandi viene lasciato dagli amici in una strada a pochi passi da casa, in via Ippodromo, a Ferrara, dopo una serata passata al locale Link a Bologna, durante la quale aveva assunto modeste quantità di alcol e stupefacenti apparendo però, secondo le dichiarazioni dei testimoni, molto tranquillo.

Proprio sulla strada Federico Aldrovandi viene intercettato dalla pattuglia “Alfa 3”, con a bordo Enzo Pontani e Luca Pollastri, che nei loro rapporti descrivono il ragazzo come  un “invasato violento in evidente stato di agitazione“; i due agenti aggiungono anche di essere stati aggrediti senza alcun motivo a colpi di karate, trovandosi costretti a chiedere rinforzi, che giungono poco dopo; è la volante  “Alfa 2”, con a bordo Paolo Forlani e Monica Segatto.

A questo punto c’è un vuoto nella storia, che è ovviamente anche il nodo centrale di tutta la vicenda: l’intervento dei poliziotti si trasforma in diverbio, che a sua volta degenera in uno scontro talmente violento che, più tardi, verrà scoperto che due manganelli si sono spezzati durante la colluttazione. In quella che a tutti gli effetti sembra essere diventata una rissa, Federico perde la vita, per “asfissia da posizione”, il torace schiacciato sull’asfalto dalle ginocchia dei poliziotti (una scena che ricorda molto la morte di George Floyd, di cui torneremo a parlare più avanti).

Alle 6:04 del mattino la prima pattuglia richiede alla centrale operativa l’invio di un’ambulanza del 118, parlando di un “malore”. Secondo i tabulati dell’intervento, alle 6:10 Ferrara Soccorso riceve una chiamata dal 113, e invia sul posto un’ambulanza e un’automedica, che arrivano, rispettivamente, alle 6:15 e alle 6:18.

Come i soccorritori hanno trovato Federico Aldrovandi lo abbiamo già scritto: riverso a terra, prono, le mani ammanettate dietro la schiena, privo di conoscenza. Vengono effettuati diversi tentativi di rianimazione cardiopolmonare sul ragazzo, fino alla constatazione del decesso.

arresto cardio-respiratorio e trauma cranico-facciale.

I poliziotti sostengono la tesi del malore improvviso, i genitori di Federico, avvisati solo alle 11 del mattino, cinque ore dopo la constatazione della morte, non ci credono: i lividi sul cadavere del loro ragazzo parlano troppo chiaro.

Siamo lontani dai tempi di Stefano Cucchi, dalla lotta di sua sorella Ilaria, ma quella di Federico Aldrovandi è da considerarsi, a tutti gli effetti, la prima storia di mala-polizia in Italia.

I suoi genitori non credono sin da subito alla versione dei quattro agenti di pattuglia, e infatti il 2 gennaio 2006 Patrizia Moretti apre un blog su internet, chiedendo che sia fatta luce sui dettagli (tanti) ancora oscuri della vicenda, il che porta a un’accelerazione delle indagini, già in corso.

Le indagini e la verità

Il 20 febbraio i risultati della consulenza tecnica medico-legale disposta dal Pubblico Ministero recitano:

la causa e le modalità della morte dell’Aldrovandi risiedono in una insufficienza miocardica contrattile acuta dovuta all’aumentata richiesta di ossigeno indotta dallo stress psico-fisico per la marcata agitazione psico-motoria e gli sforzi intensi posti in essere dal soggetto durante la colluttazione e per resistere alla immobilizzazione, all’ipotetica depressione respiratoria secondaria alla assunzione di oppiacei e alle turbe della ventilazione polmonare prodotte dalla restrizione fisica in posizione prona con le mani ammanettate dietro la schiena.

L’alcool, la ketamina e la morfina trovate nel corpo del ragazzo non hanno avuto un ruolo nella morte.

L’indagine medico-legale, depositata il 28 febbraio dai consulenti della famiglia, invece, parla di “anossia posturale”, come causa della morte, dovuta al caricamento sulla schiena di uno o più poliziotti durante l’immobilizzazione.

Il 15 marzo i quattro agenti che avevano proceduto all’arresto di Aldrovandi vengono iscritti nel registro degli indagati per omicidio colposo, e il 16 giugno ha luogo il primo incidente probatorio di fronte al giudice per le indagini preliminari, cui partecipano i familiari della vittima, i quattro imputati e una testimone oculare dell’accaduto, la camerunese Annie Marie Tsagueu, che afferma di aver sentito in maniera nitida le fasi della colluttazione, e di aver visto due agenti picchiare Federico Aldrovandi, schiacciarlo sull’asfalto e colpirlo con il manganello. Anne Marie Tsagueu aggiunge di averlo sentito gridare, chiedere aiuto tra un conato di vomito e l’altro.

Le incoerenze

Cominciano a essere notati piccoli dettagli che, tuttavia, nel corso delle indagini diventeranno poi di fondamentale importanza.

  • Perché il PM non ha compiuto un sopralluogo sulla scena del decesso?
  • Perché non è stato disposto il sequestro dell’automobile su cui, secondo gli agenti, Federico Aldrovandi si sarebbe ferito?
  • Perché non sono stati sequestrati i manganelli?
  • Perché il nastro contenente le comunicazioni fra il 113 e la pattuglia è stato messo a disposizione della Procura soltanto a distanza di tempo?

Tutte queste incongruenze hanno portato all’apertura di una seconda inchiesta presso la Procura di Ferrara, con reati che vano dal falso all’omissione, fino alla mancata trasmissione di atti.

Nel frattempo viene chiesta una perizia super-partes, affidata all'”Istituto di Medicina Legale di Torino, depositata l’11 novembre; dalla sua discussione, avvenuta il 14 dicembre, emerge un ruolo attivo delle persone che erano con Aldrovandi. I poliziotti.

Il processo

Il 10 gennaio 2007 Paolo Forlani, Monica Segatto, Enzo Pontani e Luca Pollastri sono rinviati a giudizio per omicidio colposo, per aver ecceduto i limiti dell’adempimento di un dovere, per la continuazione della violenza anche senza la resistenza del ragazzo e per aver tardato ad avvertire i soccorsi.

Nel giugno dello stesso anno i quattro, interrogati per la prima volta nel processo, si dichiarano “stupiti” dalla morte del giovane, che “stava benissimo prima dell’arrivo dei sanitari”. Una registrazione della centrale operativa riporta però chiaramente queste raccapriccianti parole:

L’abbiamo bastonato di brutto. Adesso è svenuto, non so… È mezzo morto.

Gli agenti affermano che a rompere i manganelli sarebbero stati lo stesso Aldrovandi, con un calcio, e la caduta accidentale di uno dei poliziotti, assicurano di aver chiamato tempestivamente l’ambulanza e di non aver usato il defibrillatore semi-automatico a disposizione sulla volante perché Federico Aldrovandi “non ha mai dato segni di sofferenza”.

Il 19 giugno 2009 il pubblico ministero titolare del caso, Nicola Proto, chiede una condanna a 3 anni e 8 mesi di reclusione per i quattro poliziotti implicati, pena poi effettivamente stabilita il 6 luglio dal giudice Francesco Maria Caruso (con uno sconto di due mesi rispetto alla richiesta del pm), riconoscendo l’eccesso colposo nell’uso legittimo delle armi.

Grazie all’indulto varato nel 2006 nessuno dei quattro indagati sconterà la propria pena.

In secondo grado, e dopo che il 9 ottobre 2010 viene sancito un risarcimento di circa due milioni di euro nei confronti della famiglia Aldrovandi, in cambio dell’impegno a non costituirsi parte civile nei procedimenti ancora aperti, la Corte d’appello di Bologna conferma, il 10 giugno 2011, la pena stabilita in primo grado. È la Cassazione a mettere l’ultima parola sul caso, rendendo definitiva la pena di 3 anni e 6 mesi di reclusione per “eccesso colposo nell’uso legittimo delle armi” a Paolo Forlani, Monica Segatto, Enzo Pontani e Luca Pollastri.

Anche in questo caso, i poliziotti hanno beneficiato dell’indulto, che copre 36 dei 42 mesi di carcerazione previsti dalla condanna; per questo, il 29 gennaio 2013 il Tribunale di sorveglianza di Bologna ha decretato il carcere per la pena residua di 6 mesi.

In base al decreto Severino, il cosiddetto “svuota-carceri”, Monica Segatto viene ammessa agli arresti domiciliari il 18 marzo, dopo aver scontato un solo mese di reclusione. Richiesta invece respinta per Forlani e Pollastri.

Il rientro al lavoro dei poliziotti

Con l’eccezione di Forlani, in cura per “nevrosi reattiva” i tre agenti rientrano in servizio nel gennaio del 2014, affidati a servizi amministrativi; nello stesso anno, a luglio, la Corte dei Conti dispone il sequestro dei beni per tutti e quattro, contando la cifra di 1.870.000 euro di danno erariale che avrebbero provocato con la loro condotta.

Ciascuno dei quattro agenti è stato tenuto a risarcire, in proprio, un danno di circa 467.000 euro.

Patrizia Moretti, che non ha mai smesso di cercare la verità

Fonte: Facebook @Lino Giuliano Aldrovandi

Proprio la mamma di Federico Aldrovandi è stata la persona che più di tutti ha cercato di far emergere la verità, mai convinta, assieme al marito Lino Giuliano, che il loro ragazzo non fosse morto per un malore.

Negli anni, proprio come accaduto a Ilaria Cucchi, questa donna si è sentita insultare in ogni maniera, persino da Forlani, uno dei quattro poliziotti condannati. Sulla pagina Facebook Prima Difesa Due, account dell’associazione omonima che difende a priori le forze dell’ordine, si leggeva questo commento.

Se avesse saputo fare la madre, non avrebbe allevato un ‘cucciolo di maiale’, ma un uomo!

Mentre Forlani, sui suoi social, scriveva:

Che faccia da culo che aveva sul tg… Una falsa e ipocrita… Spero che i soldi che ha avuto ingiustamente possa non goderseli come vorrebbe… Adesso non sto più zitto dico quello che penso e scarico la rabbia di sette anni di ingiustizie…

Sulla stessa pagina Facebook citata poc’anzi il poliziotto invece affermava:

Io sfido chiunque a leggere gli atti e trovare un verbale dove dice che Federico è morto per le lesioni che ha subito… […] noi paghiamo per le colpe di una famiglia che pur sapendo dei problemi del proprio figlio non ha fatto niente per aiutarlo e stiamo pagando per gli errori dei genitori.

L’8 luglio 2015 Patrizia Moretti ha dichiarato di aver ritirato le querele per diffamazione contro Forlani, il senatore di NCD Carlo Giovanardi – che a La Zanzara disse, commentando un’immagine mostrata dalla donna”Quella foto che ha fatto vedere la madre è una foto terribile, ma quella macchia rossa dietro è un cuscino. Gli avevano appoggiato la testa su un cuscino. Non è sangue” – e Franco Maccari, presidente del sindacato di polizia COISP. 

Il motivo di questa decisione lo ha spiegato in un lungo messaggio pubblicato sul sito dell’Associazione nata a nome di Federico, di cui riportiamo le parti salienti.

Ho perso Federico che aveva 18 anni la notte del 25 settembre di dieci anni fa per l’azione scellerata di quattro poliziotti che vestivano una divisa dello stato, e forti di quella divisa hanno infierito su mio figlio fino a farlo morire. Non avrebbero mai più dovuto indossarla.

I giudici hanno riconosciuto l’estrema violenza, l’assurda esigenza di ‘vincere’ Federico, e una mancanza di valutazione – da parte di quei quattro agenti – al di fuori da ogni criterio di senso comune, logico, giuridico e umanitario.

Non dovevano più indossare quella divisa: nessuno può indossare una divisa dello stato se pensa che sia giusto o lecito uccidere. O se pensa che magari non si dovrebbe, ma ogni tanto può succedere, e allora fa lo stesso, il tutto verrà ben coperto.

[…] Il delitto è stato accertato, le sentenze per omicidio emesse. Invece le divise restano sulle spalle dei condannati fino alla pensione. Fine del discorso. L’orrore e gli errori, con la morte e dopo la morte di Federico. La mancanza di provvedimenti non guarda al futuro, non protegge i diritti e la vita: non tutela nemmeno l’onestà delle forze dell’ordine.

[…] Non dimenticherò mai le offese che mi ha rivolto Paolo Forlani dopo la sentenza della Cassazione: è stati lui, sconosciuto e violento, ad appropriarsi degli ultimi istanti di vita di mio figlio. Le sue offese pubbliche, arroganti e spavalde le ho vissute come lo sputo sprezzante sul corpo di mio figlio. E lo stesso sapore ha ogni applauso dedicato a quei quattro poliziotti. Applausi compiaciuti, applausi alla morte, applausi di morte. Per me non sono nulla di diverso. […] Non sarà una sentenza di condanna per diffamazione a fare la differenza nel loro atteggiamento. Rifiuto di mantenere questo livello basato su bugie e provocazioni per ferirmi ancora e costringermi a rapportarmi con loro. Io ci sto male, per loro – credo di capire – è un mestiere. Forlani e i suoi colleghi li lascio con le loro offese e i loro applausi, magari ad interrogare ogni tanto quella loro vecchia divisa, quando sarà messa in un cassetto dopo la pensione, sull’onore e la dignità che essa avrebbe preteso.

Un onore che avrebbero minimamente potuto rivendicare se da uomini, cittadini, pubblici ufficiali e servitori dello Stato, coloro che hanno ucciso mio figlio e coloro che li hanno sostenuti avessero raccontato la verità su cosa era successo quella notte, e non invece le menzogne accertate dietro alle quali si sono nascosti prima, durante e dopo il processo, cercando di negare anche l’esistenza di quella mezzora in cui erano stati a contatto con Federico prima dei suoi ultimi respiri.

Da Forlani e dai suoi colleghi avrei voluto in quest’ultimo processo solo la semplice verità, tutta. Chi ha ucciso Federico sa perfettamente quale strazio sta dando ad una madre, un padre e un fratello privandoli della piena verità dopo avergli strappato il loro figlio e fratello. Nessun onore di indossare la divisa dello stato, nessun onore.

E nessun onore neanche a chi da dieci anni cerca nella morte di mio figlio l’occasione per dire che in fondo andava bene così: i poliziotti non possono aver sbagliato, in fondo deve essere stata colpa di Federico se è morto in quel modo a 18 anni.

Costruite pure su questo le vostre carriere e la vostra visibilità. Dite pure, da oggi in poi, che il mio silenzio è la vostra vittoria.

[…] A dieci anni dalla morte di Federico per il mio ruolo di madre, ma anche per le mie aspirazioni e per la mia attuale visione del mondo, penso che il dedicare anche solo alcuni minuti a persone che disprezzo sia un’imperdonabile perdita di tempo. Non voglio più doverli vedere né ascoltare o parlare di loro. Perciò ritirerò le querele ancora in corso.

Non lo faccio perché mi è venuta meno la fiducia nella giustizia, ma dieci anni sono troppi, ed è il momento di dire basta.

Non è il perdono, d’altra parte nessuno mi ha mai chiesto scusa, ma prendere atto che per me andare avanti nelle azioni giudiziarie rappresenta soltanto un doloroso e inutile accanimento.

Patrizia Moretti è tornata a parlare di suo figlio nel maggio 2020, pochi giorni dopo la morte di George Floyd che ha riacceso le proteste del movimento Black Lives Matter negli States.

Quello che mi ha impressionato particolarmente in questo video sono le parole di George Floyd che diceva le stesse cose che diceva mio figlio Federico: ‘non respiro’ e chiamava la mamma – ha dichiarato a RaiNews […] Quando vedo che questo tipo di violenze continuano ad accadere torno a ripensare a quello che è successo a Federico, aveva 18 anni e pensi, era anche figlio di un vigile della municipale. Non è facile per me parlarne. Anche per i responsabili della morte di Federico mi aspettavo un licenziamento ma non è stato così, loro hanno ottenuto la sospensione dal servizio che ha coinciso con la detenzione o la misura cautelare e quindi quando hanno finito sono tornati in servizio. I casi dopo di lui sono stati più difficili. Il sistema tende a insabbiarli, le testimonianze inibite, o cancellate. Ovviamente è difficilissimo dimostrare questi fatti, ci vuole molto impegno”.

Non si può superare una cosa così, si cerca di andare avanti. Gli ultimi momenti di Federico sono nei miei incubi, tutto questo non potrà mai abbandonarmi, questo vale anche per tutte le persone che vogliono bene a Federico e che capiscono la sua storia. Vado avanti per la mia famiglia, si vive ma è come un rumore di fondo che hai sempre nel cuore. Come quando accadde il terremoto del 2012, quel rombo di fondo che venne insieme alle scosse, vivo così, con quel rumore di fondo che viene da sotto la terra.

Il libro di Fabio Anselmo

A occuparsi della vicenda giudiziaria di Federico Aldrovandi è stato Fabio Anselmo, l’uomo che, quattro anni più tardi, prenderà in carico anche il caso Cucchi e che oggi è il compagno della sorella di Stefano, Ilaria.

Tutta la storia di Federico Aldrovandi è raccolta nel libro omonimo che Anselmo ha pubblicato nell’aprile del 2018 per Fandango.

Federico

Federico

Fabio Anselmo, oggi compagno di Ilaria Cucchi per cui ha seguito la vicenda del fratello Stefano, ripercorre la storia di Federico Aldrovandi, il diciottenne ferrarese massacrato nel settembre del 2005 da quattro poliziotti.
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La memoria di Federico Aldrovandi

Esisteva l’Associazione Federico Aldrovandi che qualche tempo fa si è fermata perché da quel 2005, dai primi sit-in del Comitato Verità per Aldro, ad oggi, ci ha spiegato papà Lino, “le cose fatte e affrontate sono state tantissime, e continuare per la mia famiglia avrebbe significato proseguire nel dolore. Forse era arrivato  il momento di tornare papà e mamma dell’altro figlio, Stefano. Forse è lui la persona che ha subito la più grande ingiustizia”.

La memoria di Federico è ora una memoria condivisa. Chi vorrà ricordarlo nel rispetto dei valori di cui la nostra famiglia e l’associazione si sono sempre fatti interpreti, – in concerti, in curva, in dibattiti e incontri pubblici – ha sin da ora il nostro ringraziamento. Sulla mia pagina fb e sulla pagina dedicata a Federico, e che riporta il suo nome e cognome, tengo sempre aggiornato quasi in tempo reale sulla ‘memoria condivisa’.

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