Carlo Maria Capristo, ex procuratore di Trani, e poi responsabile della procura di Taranto, dal 19 maggio si trova agli arresti domiciliari. L’accusa nei confronti di Capristo è di corruzione in atti giudiziari, che risalirebbero a quando lavorava proprio presso la procura tranese, e si è presto allargata anche ad altri nomi eccellenti della zona, a partire da Michele Scivittaro, Ispettore di Polizia in servizio presso la Procura di Taranto, per finire con gli imprenditori pugliesi Giuseppe, Cosimo e Gaetano Mancazzo.

A contribuire all’arresto suo e degli altri, la pm, oggi in servizio a Bari, Silvia Curione, la donna che proprio Capristo, suo superiore, chiamava “bambina mia”, con quel tono fintamente bonario ma che in realtà trasuda paternalismo, tipico di chi è cresciuto pensando di essere legittimato a non prendere troppo sul serio una donna che svolge una certa professione e a considerarla tutto, tranne che una minaccia.

Se quell’inchiesta ha avuto una svolta, e dei nomi, lo si deve proprio alla pm Curione.

L’indagine

Fonte: BariViva

Gli indagati avrebbero compiuto atti volti proprio a indurre il Sostituto Procuratore della Repubblica Silvia Curione a perseguire, in sede penale e senza alcun presupposto, una persona che gli imprenditori – risultati poi i mandanti dell’intera operazione – avevano denunciato per usura; lo scopo era ottenere in maniera indebita vantaggi economici e benefici di legge connessi allo status di soggetti usurati.

Peccato che la pm trentanovenne non si sia lasciata ingannare, né “comprare” da quel modo apparentemente vezzoso, ma dichiaratamente sminuente, con cui il suo superiore era solito appellarla; Curione ha denunciato le pressioni dell’ex capo e l’illecita interferenza del suo diretto superiore, Antonino Di Maio, consegnando nelle mani degli investigatori documenti e messaggi. Assieme a Silvia ha sempre lottato il marito, Lanfranco Marazia, che all’epoca dei fatti era pm a Taranto e che subì le ritorsioni di Capristo proprio a causa della scarsa malleabilità della consorte.

Oggi entrambi in servizio a Bari – lui nel pool dei reati finanziari, lei nel gruppo di tutela delle fasce deboli – la loro testimonianza è risultata fondamentale per l’inchiesta di Potenza, scattata dopo l’invio di atti da parte della Procura generale di Bari, che ha avocato l’inchiesta per calunnia sugli imprenditori Mancazzo che Di Maio avrebbe voluto archiviare.

Scivittaro mi disse espressamente che era venuto da me a nome di Capristo – si legge nel verbale delle dichiarazioni di Silvia Curione – e mi raccomandò, sempre per conto di Capristo, le ragioni di Mancazzo. Lo considerai un oltraggio e subito dopo andai da Di Maio per riferire l’accaduto ma lui non c’era, così gli mandai messaggi e il giorno successivo tornai […] dissi che era inammissibile che persone che non stavano da due anni nel nostro ufficio volessero farla da padrone, e lui rispose che potevamo trovarci di fronte a millanterie e mi invitò a non essere emotiva.

Silvia Curione non si è fatta fermare neanche da questo: ha messo tutto per iscritto, allegando alla relazione anche i risultati delle intercettazioni sui Mancazzo, da cui emergeva il comportamento illecito di Scivittaro e il probabile coinvolgimento di Capristo.

Rimasi colpita dal fatto che Cotugno dicesse che a Trani comandavano ancora loro e che parlassero di me come della bambina.

La “bambina”, però, non si è mai fatta intimidire.

Anche se la storia di Silvia Curione è soprattutto una storia di integrità professionale, di rettitudine morale e di grandissimo senso del dovere, non si può non sottolineare quanto alcuni atteggiamenti permeino ancora una società dove la presenza della donne in certi ambienti è banalizzata, sottovalutata o persino derisa. Sono proprio i sorrisini, le battute e gli appellativi apparentemente innocui come “bambina mia” (nessuno si rivolgerebbe a un collega uomo più giovane negli stessi termini), usati però con la precisa intenzione di sminuire una figura, a stabilire ancora in maniera definita ruoli di potere, usando il paternalismo compassionevole per tentare di “rimettere le donne al proprio posto”, ovvero dove decidono gli uomini.

Non è un caso se, nel nostro Paese, l’accesso femminile alla magistratura sia piuttosto recente, e se le donne hanno faticato ad affermarsi nelle aule di giustizia.

I numeri delle donne nelle aule di giustizia

Dal primo concorso (parliamo del 1963) l’ingresso delle donne nel mondo della magistratura è stato decisamente lento, con una media del 4% -5% per ogni concorso, andando ad aumentare progressivamente solo negli anni ’70 e ’80, fino a raggiungere il 58% nel 2009.

Sorprendentemente, nel 2018 le donne hanno “sorpassato” gli uomini, come riporta questo documento del CSM:

Al 5 Marzo 2018 i magistrati presenti in Italia ammontavano a 9.543 unità, includendo in tale numero sia i magistrati fuori ruolo, sia i Magistrati ordinari in Tirocinio (MOT). La distribuzione secondo il genere (Tabella 1 e Grafico 1) mostra una leggera prevalenza di donne: 4.482 magistrati di sesso maschile e 5.061 magistrati di sesso femminile (pari al 53% circa). L’età media di queste ultime (47) è più bassa di quella degli uomini (51) di quattro anni.

Il 52% circa dei magistrati in ruolo è di genere femminile, mentre tra i magistrati fuori ruolo prevalgono gli uomini, con il 57%. Fra i magistrati ordinari in tirocinio (MOT) 463 sono donne (il 65% circa), 247 uomini (il 35 % circa). Quindi ogni dieci vincitori di concorso, almeno sei sono di sesso femminile.

Un bel passo in avanti, se pensiamo che solo nel 2010, su 153 presidenti di Tribunale, appena 12 erano donne (l’8%), mentre di 158 procuratori capi della Repubblica solo 11 erano donne (il 7%). Presso la Corte di cassazione ci sono attualmente 3 presidenti di sezione donne (su 44) e 59 consigliere (su 230), e le donne ricoprono incarichi direttivi (81) e semidirettivi (131), ma nessuna donna è mai stata presidente dell’organo giudiziario.

Perché fino al 1963 le donne non potevano accedere alla magistratura

Nel 1963 la legge n. 66 ha regolamentato “l’ammissione della donna ai pubblici uffici ed alle professioni”, mentre il primo concorso aperto alle candidate donne fu indetto nel maggio dello stesso anno. Su 200 posti a disposizione, risultarono idonee solo otto candidate su 187. Fino a quel momento l’art. 7 della legge 17 luglio 1919 n. 1176 (abrogata dall’art. 2 della legge n. 66 del 1963) ammetteva le donne all’esercizio delle professioni e agli impieghi pubblici, escludendole però espressamente dall’esercizio della giurisdizione:

Le donne sono ammesse, a pari titolo degli uomini, ad esercitare tutte le professioni ed a coprire tutti gli impieghi pubblici, esclusi soltanto, se non vi siano ammesse espressamente dalle leggi, quelli che implicano poteri pubblici giurisdizionali o l’esercizio di diritti e di potestà politiche, o che attengono alla difesa militare dello Stato secondo la specificazione che sarà fatta con apposito regolamento.

Perché questo divieto? Occorre ovviamente ricordare che parliamo di tempi in cui nel nostro Paese erano ancora in vigore il matrimonio riparatore o il delitto d’onore, l’aborto era considerato illegale e non esisteva neppure il divorzio (tutte conquiste ottenute dagli anni ’70 in poi). Già nel 1947 l’Assemblea Costituente si era trovata a decidere se riconoscere o meno alle donne il diritto di svolgere l’attività di magistrati, ma alla base del dibattito c’era un pregiudizio troppo forte:

La donna deve rimanere la regina della casa, più si allontana dalla famiglia più questa si sgretola – affermò Antonio Romano, eletto con la DC – Con tutto il rispetto per la capacità intellettiva della donna, ho l’impressione che essa non sia indicata per la difficile arte del giudicare. Questa richiede grande equilibrio e alle volte l’equilibrio difetta per ragioni anche fisiologiche. Questa è la mia opinione, le donne devono stare a casa.

L’Assemblea decise di tacere la questione, stabilendo, in maniera molto semplicistca, all’art. 51 che “tutti i cittadini dell’uno e dell’altro sesso possono accedere agli uffici pubblici in condizioni di eguaglianza, secondo i requisiti stabiliti dalla legge“. Il motivo di questa “via di mezzo”, secondo la magistrata Paola Di Nicola, risiede nel fatto che alcuni temevano che la bocciatura dell’emendamento proposto per favorire l’ingresso delle donne in magistratura sarebbe stato interpretato in futuro come una volontà di negare loro l’accesso.

Sono stati però necessari quindici anni, dall’entrata in vigore della Costituzione, perché il Parlamento varasse una legge specifica; nel frattempo, però, le donne sono state escluse da ben sedici concorsi per uditore giudiziario.

 

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