“Credevo che il tempo potesse guarire tutte le ferite. Invece no. Il tempo le apre sempre più fino ad ucciderti, lentamente”, scriveva Rita Atria nel suo diario, prima di togliersi la vita il 26 luglio del 1992. Pochi ricordano il suo nome e la sua vicenda drammatica, intrecciata con quella di Paolo Borsellino, ucciso dalla mafia solo una settimana prima di lei.

Di se stesso il magistrato, in molte interviste, dopo la strage di Capaci di maggio e la morte di Falcone, diceva di essere “un morto che cammina”; perché era consapevole del suo destino, e che la mafia non gli avrebbe perdonato lo zelo con cui svolgeva il suo lavoro.

Ora che è morto Borsellino, nessuno può capire che vuoto ha lasciato nella mia vita. Tutti hanno paura ma io l’unica cosa di cui ho paura è che lo Stato mafioso vincerà e quei poveri scemi che combattono contro i mulini a vento saranno uccisi.

Rita Atria non è morta il 19 luglio del 1992, insieme al magistrato e alla sua scorta, ma è come se lo fosse. Conosceva la mafia da vicino, perché aveva avuto la sventura di nascere in una famiglia che ne faceva parte, ma aveva scelto di provare a cambiare la sua terra. Grazie anche all’aiuto di Borsellino.

Prima di combattere la mafia devi farti un auto-esame di coscienza e poi, dopo aver sconfitto la mafia dentro di te, puoi combattere la mafia che c’è nel giro dei tuoi amici, la mafia siamo noi ed il nostro modo sbagliato di comportarsi. Borsellino, sei morto per ciò in cui credevi ma io senza di te sono morta.

Nata a Partanna, in provincia di Trapani, era figlia di Vito Atria, un pastore e proprietario agricolo legato affiliato a Cosa Nostra. Piccolo boss locale, nel 1985 trovò la morte in seguito alla sua decisione di non incoraggiare i crescenti affarti del narcotraffico. Da quel giorno il fratello della ragazza, Nicola, più grande di dieci anni, decise di cercare di vendicarsi per quanto accaduto.

Rita Atria si avvicinò sempre di più a Nicola e alla moglie Piera Aiello, sebbene quello tra i due giovani fosse stato un matrimonio organizzato dalle rispettive famiglie. Il 24 giugno del 1991 la mafia tornò però a colpire di nuovo i suoi affetti: il fratello venne ucciso nella pizzeria dove lavorava, davanti alla moglie, che decise poi di collaborare con la giustizia. Come raccontato al Corriere dalla stessa Piera Aiello, che ha vissuto per anni nell’anonimato, aveva fatto di tutto per convincere il marito a cambiare vita.

Cercai in ogni modo di convincere mio marito ad evitare il tentativo di vendicare la morte del padre, ma non ci fu nulla da fare. Girava armato e si occupava dello spaccio di droga: quando provavo a dirgli di smettere con questa vita mi picchiava.

Rimasta sola con la madre, dopo l’uccisione del fratello e la scelta della cognata di testimoniare e vivere nell’ombra, Rita Atria iniziò a temere per la sua vita. E, ancora una volta, affidò al diario tutte le sue paure.

L’una di notte e non riesco a dormire. Sono molto preoccupata e per la prima volta dopo la morte di Nicola ho una gran paura, non per me, ma per mia madre. Il motivo è che stasera, alle 11,35 circa, ho sentito bussare alla porta. Io e mia madre eravamo sveglie, ma le luci erano spente, mia madre dopo che hanno continuato a bussare insistentemente, ha chiesto chi era, e una voce ha risposto che era Andrea e che era venuto a fare visita.

Si trattava di un giovane che suo padre faceva lavorare nei campi e che non si presentava da anni a casa loro. Rita Atria era certa che si fosse recato lì per ucciderla, perché sapeva che girava con una pistola e che per denaro era disposto a tutto.

Ho detto a mia madre che era tutto a posto, ho inventato delle scuse per tranquillizzarla, ma ho proprio paura che domani mi uccideranno. Spero che le mie paure siano infondate, ma in caso contrario spero non facciano del male a mia madre, la mia paura è per lei, non posso lasciarla nei guai. Domani avvertirò il brigadiere, ma prima devo assicurarmi che mia madre sia al sicuro. Spero non sia l’ultima volta che scrivo in questo quaderno.

Fu così che maturò in lei la convinzione di collaborare, proprio come aveva fatto la cognata Piera Aiello. La madre cercò di farle cambiare idea, ma non ci riuscì e decise di ripudiarla, perché la considerava una traditrice. Nel novembre 1991, la diciassettenne iniziò così a raccontare quello che sapeva a Paolo Borsellino, che per lei diventò come un padre.

Entrata a far parte del programma di protezione dei testimoni, si trasferì a vivere nella capitale, nel totale anonimato. E morì nello stesso modo, nell’indifferenza totale: la “picciridda”, come la chiamava Borsellino, a soli diciassette anni, dopo quel 19 luglio del ’92, non aveva più nessuno su cui contare e decise di gettarsi dal quinto piano del palazzo in cui la polizia l’aveva nascosta.

Come raccontato un articolo di Repubblica, quasi nessuno si presentò ai funerali a Partanna e sua madre si recò al cimitero solo diversi mesi dopo per distruggere la lapide della figlia a martellate. Un finale triste, per una vita che avrebbe potuto sbocciare, lontano dalla violenza.

Forse una speranza
l’illusione di cambiare ciò che ti circonda
talmente complicato perché sai che mai
ciò che è stato rubato ti potrà essere restituito
puoi gridare, piangere, soffrire,
ma nessuno ascolterà, nessuno ti capirà
anzi ti giudicherà.

La cognata di Rita Atria, Piera Aiello, è riuscita a sopravvivere a un’esistenza nel segreto e nel 2018 ha deciso di mostrare il suo volto, dopo essere stata eletta come deputata in parlamento, tra le file del M5S.

Sono stata eletta nella mia terra. Con questa candidatura mi sono riappropriata del mio territorio, che mi hanno tolto 27 anni fa quando mi hanno portata via. Del mio nome mi sono riappropriata, in un secondo momento, quando sono entrata alla Camera. Adesso mi riapproprio del mio volto.

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