Sono passati più di quarant’anni da quando Giuseppe Impastato, Peppino per tutti, fu trucidato dalla mafia, contro cui aveva lottato per tutta la vita. Il suo cadavere fu fatto saltare in aria con del tritolo sui binari della ferrovia Palermo-Trapani, per far sembrare che si trattasse di un fallito attentato suicida, poiché il giornalista siciliano, nato a Cinisi, una manciata di chilometri dal capoluogo isolano, si era candidato con Democrazia Proletaria alle elezioni comunali del 1978, e i mafiosi che ordirono il suo assassinio volevano, dunque, farlo passare per un sovversivo.

Era, quella, un’epoca molto buia nella storia italiana, martoriata da attentati di natura politica in quel clima di odio e di terrore divenuto tristemente noto come gli anni di piombo; tanto che l’omicidio di Peppino, avvenuto nella notte tra l’8 e il 9 maggio del ’78, passò letteralmente in sordina, perché proprio la stessa mattina in cui fu ritrovato il suo cadavere, molti chilometri più a nord, a Roma, venne rinvenuto anche quello del leader della DC Aldo Moro, ucciso dalle Brigate Rosse dopo 55 giorni di prigionia.

Certo, conoscendo la storia familiare di Peppino Impastato, niente avrebbe potuto fare pensare che la sua vita sarebbe interamente stata dedicata alla lotta a Cosa Nostra; lui era nato in una famiglia mafiosa, con il padre Luigi inviato al confino durante il fascismo, lo zio esponente della mafia e persino il cognato del padre, Cesare Manzella, capomafia ucciso nel ’63 in un attentato. Da ciò che la sua famiglia rappresentava Peppino si distaccò praticamente appena raggiunta la maturità, ruppe i rapporti col padre e, già nel 1965 fondò il giornalino L’idea socialista.

Divenne un attivista del Partito Comunista, affiancandosi, nelle loro battaglie, ai contadini espropriati per via della costruzione della terza pista dell’aeroporto di Palermo, proprio nel territorio di Cinisi, ma anche ai disoccupati. Peppino assunse il ruolo di vera e propria voce delle fasce più disagiate della società, dei deboli, degli sfruttati, senza mai dimenticare l’importanza della cultura – motivo per cui nel 1976 fondò il gruppo Musica e cultura – ma soprattutto la lotta alla mafia. Nello stesso anno ha dato vita a Radio Aut, una radio libera autofinanziata, attraverso cui denunciava i crimini e gli affari dei mafiosi di Cinisi e Terrasini, puntando il dito soprattutto sul capomafia Gaetano Badalamenti, da lui ribattezzato Tano Seduto, il quale, tramite il controllo di Punta Raisi, si era assicurato un ruolo di primo piano nei traffici internazionali di droga. Proprio attraverso la sua radio, Peppino attirò le attenzioni dei mafiosi e del loro capo, che alla fine decisero di farlo fuori.

Badalamenti non voleva solo uccidere Impastato, voleva anche distruggere la sua immagine, perciò chiese ai suoi scagnozzi di inscenare il finto attentato suicida, adagiando il corpo di Peppino sul tritolo, legato ai binari della ferrovia. Forse per paura, per omertà e riluttanti all’idea di pestare i piedi a un nemico troppo potente, stampa e magistratura concordarono nel ritenere veritiera la versione dell’attentato, e il processo contro i veri mandanti dell’omicidio del giornalista fu riaperto solo negli anni ’90.

Solo la lotta della madre di Peppino, Felicia Bartolotta, scomparsa nel 2004, e del fratello, ha permesso che il suo caso non finisse nel dimenticatoio, ma per riuscirci c’è voluto tanto tempo, e molta determinazione da parte loro: sebbene già nel 1984, infatti, l’Ufficio Istruzione del Tribunale di Palermo, sulla base delle indicazioni del giudice Consigliere istruttore Rocco Chinnici (assassinato nel luglio del 1983) avesse riconosciuto la matrice mafiosa del delitto, attribuito però ad ignoti, nel 1992 i giudici disposero l’archiviazione del caso.

Nel 1994 il Centro di documentazione dedicato a Peppino Impastato ha presentato la richiesta di riapertura del caso, accompagnata anche da una petizione popolare, chiedendo di interrogare nuovamente il pentito di mafia Salvatore Palazzolo, precedentemente affiliato alla cosca mafiosa di Cinisi, il quale, due anni più tardi, indica proprio Badalamenti come mandante dell’omicidio del giornalista, insieme al suo braccio destro Vito Palazzolo. Dopo la riapertura formale dell’inchiesta, nel novembre del 1997 viene emesso un ordine di arresto per Badalamenti, detenuto negli Stati Uniti, fino alle condanne definitive: il 5 marzo 2001 la corte d’assise di Palermo emette una sentenza a 30 anni di carcere per Palazzolo, mentre l’11 aprile del 2002 per Gaetano Badalamenti, riconosciuto come mandante dell’omicidio, c’è l’ergastolo, anche se il capomafia in carcere resterà solo due anni, poiché morirà nel 2004.

A distanza di oltre quarant’anni, Peppino Impastato resta un eroe della gente comune, il Davide capace di opporsi al gigante Golia e di trionfare, anche oltre la sua morte. A quelle elezioni del 1978, infatti, nonostante il suo assassinio, gli elettori di Cinisi votarono comunque il suo nome, riuscendo ad eleggerlo simbolicamente al Consiglio comunale della cittadina. Un vero smacco per chi aveva pensato che, cancellandolo dalla terra, avrebbe cancellato anche tutto ciò che Peppino aveva fatto per portare alla luce il marcio della mafia.

Il fratello, Giovanni, in occasione del quarantesimo anniversario della morte ha ricordato all’agenzia Dire quei giorni terribili, dopo il suo assassinio.

I ricordi di quel periodo sono terribili. È stato anche il giorno della morte di Aldo Moro. Per noi è stato un fulmine a ciel sereno, non ce l’aspettavamo. Ricordo che siamo anche stati trattati male dagli investigatori, che hanno perquisito le nostre abitazioni. Ci hanno preso per dei terroristi. Verso di noi sono stati brutali. Abbiamo voluto trattenere le lacrime e ci siamo rimboccati le maniche.

Di mamma Felicia, invece, Giovanni ha detto:

Lei ha reagito come può reagire una mamma. Era sconvolta, ma aveva capito che serviva andare avanti, che dovevamo dare l’immagine giusta di Peppino. Come per i suoi compagni, che subirono perquisizioni. Loro riuscirono a trovare le macchie di sangue nel casolare dove fu fatto esplodere: hanno portato avanti un impegno serio e hanno pure rischiato. Ha avuto un ruolo importantissimo, era la moglie di un mafioso. Ma era la madre di un militante che combatteva la mafia. Credeva nei valori famiglia. Non ha mai lasciato il marito, che era un mafioso, e lo ha rispettato fino alla fine.

Uno dei film più belli del cinema italiano, dedicato proprio alla storia di Peppino Impastato, è I cento passi, di Marco Tullio Giordana: nel film, una scena recita:

‘È solo un mafioso, uno dei tanti’.
‘È nostro padre’.
‘Mio padre, la mia famiglia, il mio paese… Ma io voglio fottermene.
Io voglio scrivere che la mafia è una montagna di merda, io voglio urlare!’.

Lui, che la mafia la derideva nel suo programma radiofonico Onda pazza a Mafiopoli, quella merda l’aveva vista, affrontata, combattuta, a viso aperto, con coraggio, con convinzione. E le aveva solo fatto credere di aver vinto, perché alla fine, in realtà, a vincere è stato lui.

44 anni senza Peppino Impastato che gridava "La mafia è una montagna di merda"
centroimpastato.com
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