Felicia Impastato: la madre che diventò la voce di quel figlio ammazzato

Dopo la morte del figlio Peppino, trucidato dalla mafia il 9 maggio 1978, Felicia Impastato divenne la sua voce. Morì solo dopo aver dato un volto e un nome ai suoi assassini, e giustizia a quel suo ragazzo che aveva osato mettersi contro i boss di Cinisi.

Il 9 maggio 1978 Giuseppe “Peppino” Impastato veniva ucciso in un attentato mafioso a Cinisi, in provincia di Palermo. Mentre a diversi chilometri più su, a Roma, le Brigate Rosse davano la morte al segretario della DC Aldo Moro, nella sua bella Sicilia Peppino veniva trucidato da quei mafiosi che per tutta la vita aveva instancabilmente e pubblicamente denunciato, incurante del pericolo che la sua onestà gli procurava.

Se il delitto Impastato, seppur dopo anni, non è caduto nel silenzio, insabbiato dall’omertà, ma ha avuto volti e nomi dei responsabili lo si deve soprattutto a una figura: Felicia, la mamma di Peppino, la donna che non si arrese mai alla paura e fu determinata ad andare fino in fondo alla morte del figlio.

A quella donna, morta nel 2004 dopo aver speso una vita alla ricerca della verità, curvata dal tempo e dal dolore per la perdita del suo Peppino, è stato dedicato un film, diretto da Gianfranco Albano e interpretato da una intensa Lunetta Savino, che porta proprio il nome della grande donna, Felicia Impastato.

Del resto, che Felicia Bartolotta fosse una donna determinata lo si capiva già da quando scelse con caparbietà di sposare Luigi Impastato, nel 1947.

Prima si stava all’obbedienza… E mi feci fidanzata con uno onesto… Ma non lo volevo. Arrivai ad esporre il corredo ma quando dovevo andare a sposarmi dissi: Non lo voglio sposare.

Raccontò nel 1986, nel libro La mafia in casa mia.

Certamente Felicia Impastato non sapeva, però, che Luigi avesse rapporti con la mafia (la sua famiglia di piccoli allevatori era legata alla mafia di Cinisi, e durante il fascismo lui era stato condannato a tre anni di confino).

Io allora non ne capivo niente di mafia, altrimenti non avrei fatto questo passo.

Quando Peppino, raggiunta la maturità, si distaccò dalla famiglia, ( dopo l’uccisione di Cesare Manzella nel 1963 , cognato di Felicia, che fu ucciso con un’autobomba durante la “Prima guerra di mafia”) Felicia Impastato si ritrovò fra due fuochi, pur disapprovando le relazioni del marito e avvertendolo più volte che se ne sarebbe andata di casa se gli avesse portato un mafioso.

Io gli dicevo: ‘Stai attento, perché gente dentro casa non ne voglio. Se mi porti qualcuno dentro, che so, un mafioso, un latitante, io me ne vado da mia madre’.

Ha raccontato più volte Felicia Impastato.

Mentre Luigi Impastato stringeva rapporti sempre più stretti con Gaetano Badalamenti – che poi sarebbe stato il mandante dell’omicidio di Peppino – Felicia Impastato difendeva suo figlio dal padre, ma anche dalle reazioni dei mafiosi ai suoi scritti. Peppino scriveva articoli contro la mafia sul foglio ciclostilato che aveva fondato assieme ai compagni, L’Idea socialista, e lei si prodigava per evitarne la diffusione a Cinisi. Inutilmente cercava di persuadere Peppino a non parlare di mafia nei suoi comizi, ma lui andava avanti per la propria strada, puntando sempre più in alto, fino al vertice della piramide, al boss: Gaetano Badalamenti, più volte attaccato durante una campagna elettorale del 1978, fino alla morte, trovata nella notte tra l’8 e il 9 maggio 1978, quando Peppino fu rapito, legato ai binari della ferrovia Palermo-Trapani e fatto saltare con una bomba al tritolo, perché si pensasse che il suo era stato un atto terroristico kamikaze. I mafiosi fecero di tutto non solo per eliminare Peppino, ma anche per distruggerne l’immagine e la memoria, per dargli la fama di sovversivo, di terrorista.

Felicia Impastato, che ovviamente non poteva credere né all’ipotesi del suicidio, né tantomeno a quella del terrorismo, inizialmente perseguite dalle forze dell’ordine, decise di costituirsi parte civile, non solo per cercare i colpevoli della morte del figlio, ma anche al fine di tutelare il fratello di Peppino, Giovanni. Questa scelta la portò a rompere definitivamente i rapporti con i parenti del marito.

Mi piace parlarci, perché la cosa di mio figlio si allarga, capiscono che cosa significa la mafia – diceva Felicia che aveva deciso di aprire le porte di casa a quanti volevano conoscere la storia di Peppino – E ne vengono, e con tanto piacere per quelli che vengono! Loro si immaginano: ‘Questa è siciliana e tiene la bocca chiusa’. Invece no. Io devo difendere mio figlio, politicamente, lo devo difendere. Mio figlio non era un terrorista. Lottava per cose giuste e precise.

Le convinzioni di Felicia Impastato si concretizzano quando, i giorni successivi all’omicidio, i compagni di Peppino ritrovano delle pietre insanguinate in un casolare, lo stesso dove lui è stato portato e poi ammazzato.
Forti di questo, il 16 maggio Felicia e Giovanni Impastato inviano un esposto alla Procura di Palermo, indicando come mandante dell’assassinio Gaetano Badalamenti.

Ma Felicia Impastato dovrà attendere a lungo affinché l’omicida di suo figlio abbia un nome; dopo l’uccisione del magistrato Rocco Chinnici, nel 1983, infatti, l’omicidio Impastato viene classificato come mafioso, ma compiuto per mano di ignoti dal Consigliere istruttore Antonino Caponnetto, successore di Chinnici, nel maggio 1984.

Quattro anni più tardi il Tribunale di Palermo inviò una comunicazione giudiziaria a Badalamenti, che nel frattempo aveva ricevuto una condanna per mafia negli USA a 45 anni di carcere, ma nel maggio 1992 il fascicolo viene nuovamente archiviato: non era possibile individuare i colpevoli dell’omicidio di Peppino Impastato, secondo quanto dissero i giudici palermitani, che tuttavia ipotizzarono la responsabilità dei mafiosi di Cinisi alleati dei corleonesi.

Felicia Impastato non si arrese e, con l’aiuto del figlio, chiese di nuovo la riapertura delle indagini, facendo pressioni perché fosse ascoltato il pentito di mafia Salvo Palazzolo, originario di Cinisi, il quale indicò come responsabili dell’omicidio proprio Badalamenti e il suo vice, Vito Palazzolo. Felicia Impastato ottenne la riapertura del caso nel giugno 1996, e il 5 marzo del 2001 Vito Palazzolo venne condannato a trent’anni di prigione, Badalamenti all’ergastolo l’11 aprile del 2002 (anche se sconterà solo due anni, perché morirà nel 2004).

È ancora viva nella memoria dei cronisti che hanno assistito al processo, quella piccola donna, che gli anni hanno reso curva, vestita di nero, mentre saliva sul pretorio accompagnata dagli avvocati per rendere la sua coraggiosa testimonianza. Don Tano la osservava, muto, in video conferenza, mentre se ne stava seduto in una stanza del carcere americano: ‘È stato Badalamenti ad uccidere mio figlio. A Cinisi lo sanno tutti’, ha tuonato la signora Felicia.

Questo pezzo, estratto da un articolo della giornalista dell’Unità Sandra Amurri, rivela tutta la forza e la dignità di Felicia Impastato, che non ha mai ceduto alle intimidazioni e alla paura della mafia, proprio come aveva fatto suo figlio.

Nel 1998 la Commissione parlamentare antimafia ha istituito un comitato speciale sul caso Impastato, che nel dicembre 2000 è arrivato ad approvare una relazione in cui emergeva il depistaggio delle indagini sull’omicidio, organizzato da alcuni carabinieri che avevano partecipato alle perquisizioni avvenute subito dopo il delitto. Dopo questa clamorosa rivelazione è stata aperta nel 2011, da parte della procura di Palermo, un’indagine, tuttora in corso.

Felicia Impastato è morta il 7 dicembre 2004, a 88 anni, per un attacco d’asma e, dopo la sua morte, la casa dove ha vissuto, quella stessa che apriva a chiunque volesse conoscere la storia di Peppino, è diventata la Casa memoria Felicia e Peppino Impastato. Di lei, il figlio Giovanni ha detto a Dire:

Lei ha reagito come può reagire una mamma. Era sconvolta, ma aveva capito che serviva andare a vanti, che dovevamo dare l’immagine giusta di Peppino. Come per i suoi compagni, che subirono perquisizioni. Loro riuscirono a trovare le macchie di sangue nel casolare dove fu fatto esplodere: hanno portato avanti un impegno serio e hanno pure rischiato. Ha avuto un ruolo importantissimo, era la moglie di un mafioso. Ma era la madre di un militante che combatteva la mafia. Credeva nei valori famiglia. Non ha mai lasciato il marito, che era un mafioso, e lo ha rispettato fino alla fine.

Ma la cosa più importante è che ha fatto in tempo a dare giustizia a suo figlio, e a dimostrare che da quella “montagna di merda” che è la mafia, si può sempre e comunque uscire puliti.

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