L'orrore delle donne di conforto, le schiave sessuali che la storia ha cercato di cancellare

Il Giappone ha cercato di negarne l'esistenza per anni. Ma le donne di conforto sono esistite, e hanno subito violenze inenarrabili che oggi devono essere rese note affinché certi crimini abominevoli non si ripetano più.

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Solo chi ha i capelli rossi può capire questi drammi

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I volti terrorizzati, le spalle al muro come a volersi proteggere, lo sguardo smarrito di chi ormai è pronta ad aspettarsi solo il peggio.

Il filmato rinvenuto dall’équipe di ricercatori sudocoreani, guidata dal professor Kang Sung-hyun della Seoul National University, ha portato a galla, dopo settant’anni di negazionismo e scontri diplomatici, una realtà agghiacciante e spaventosa che si va ad aggiungere ai già infiniti orrori della II Guerra Mondiale.

Parliamo delle comfort women, ovvero quell’esercito di donne, cinesi o coreane, messe letteralmente al servizio dei soldati giapponesi per soddisfare i loro piaceri sessuali. Donne libere ridotte al rango di schiave sessuali insomma, di prostitute. 200 mila, raccontano i numeri ufficiali o meno, quelle finite alla mercé dell’esercito del Sol Levante durante il secondo conflitto, una cifra impressionante.

Chi erano le donne di conforto o “comfort women”

Una delle donne simbolo delle “comfort women”, che per anni ha cercato di far sapere la verità di quegli orrori subiti durante il secondo conflitto mondiale, Kim Bok-dong, è morta il 28 gennaio 2019 a 92 anni. Per tantissimo tempo, esattamente dal 1991, quando il destino suo e delle sue compagne era stato sepolto sotto un spesso strato di omertà, per ogni mercoledì ha protestato davanti all’ambasciata giapponese, proprio perché quella coltre che le aveva totalmente eliminate dalla storia venisse finalmente sollevata.

Ci sono voluti altri anni, 26 per l’esattezza, affinché il filmato recuperato dalla Seoul National University fosse consegnato all’umanità come testimonianza dello scempio compiuto ai danni delle donne coreane ridotte in schiavitù dall’esercito occupante giapponese.

Ma chi erano le comfort women?

Benché alcuni storici, come Lee Yeong-Hun e Ikuhiko Hata abbiano sostenuto che le ragazze reclutate fossero volontarie, le donne di conforto erano a tutti gli effetti costrette a fare le prostitute dall’Impero giapponese; non a caso il termine nipponico originale, ianfu, indica un eufemismo che sta per shōfu, ossia prostituta appunto.

C’erano al massimo 20.000 donne di conforto – ha scritto Hata nelle sue ricerche – Nessuna reclutata con la forza. Il 40% di loro era giapponese, la nazione più rappresentata. Molte erano state vendute dai genitori. Alcune hanno risposto volentieri alle offerte dei mediatori; altre sono stati ingannati. Vorrei aggiungere che, in media, le condizioni di vita nei luoghi in cui stavano queste donne erano praticamente identiche a quelle dei bordelli allestiti per le truppe americane durante la guerra del Vietnam.

In realtà, già dal 1989 diverse donne si sono fatte avanti, testimoniando che i soldati giapponesi le avessero rapite, e sul loro numero non c’è una precisione oggettiva, dato che si passa dalle 20 mila citate da Hata fino alle 410 mila menzionate invece dagli studiosi cinesi.

Queste donne provenivano dalla Corea, dalla Cina, dal Giappone e dalle Filippine, ma nei “centri del comfort” si sfruttavano anche donne provenienti anche dalla Thailandia, dal Vietnam, dalla Malaysia, da Taiwan, dall’Indonesia e da altri territori occupati.

I “centri” si trovavano soprattutto in Giappone, Cina, nelle Filippine, in Indonesia, ma anche nella Malesia britannica, in Thailandia, in Birmania, in Nuova Guinea, a Hong Kong, a Macau e nell’Indocina francese.

Una cosa va detta: nella fase iniziale della guerra, effettivamente, pare che le prime donne di conforto fossero prostitute giapponesi che si offrirono volontarie per questo servizio, andando a occupare il primo centro di conforto, istituito nella concessione giapponese a Shanghai nel 1932.
L’idea dell’esercito imperiale era permettere ai soldati di sfogare i propri istinti sessuali lì, senza ricorrere agli stupri di guerra, che avrebbero incrementato l’ostilità dei popolo occupati verso i soldati del Sol Levante.

Ma c’erano altri motivi alla base della creazione di questi centri, ovvero evitare la trasmissione di malattie veneree e intercettare lo spionaggio nemico. Con il proseguimento della campagna d’espansione giapponese, però, i militari giapponesi ebbero maggior difficoltà a trovare volontarie, e a quel punto decisero di sfruttare le donne delle province invase. Le ragazze prelevate venivano ingannate con la promessa di un lavoro in fabbrica o nell’ambiente della ristorazione, dopodiché venivano letteralmente incarcerate nei “centri del comfort” in Paesi stranieri.

Secondo un articolo del New York Times, negli anni 239 donne si sono fatte avanti affermando di essere state delle donne di conforto; fra loro, solo una ventina a oggi è ancora viva, e la maggior parte ha più di 90 anni. Kim Bok-dong, ad esempio, è stata costretta a diventare una comfort woman a soli 14 anni, a riprova del fatto che non ci fosse un’età “limite” per entrare nei centri di conforto. Proprio grazie alle loro testimonianze, comunque, il mondo ha iniziato a prendere coscienza del problema, tanto che, nel 1993, fu emanata persino la dichiarazione di Kono che confermò l’effettiva esistenza di abusi durante la guerra

Le donne di conforto in Giappone e in Corea

Il 17 aprile 2007 due studiosi, Yoshiaki Yoshimi e Hirofumi Hayashi, hanno annunciato di aver scoperto negli archivi giapponesi l’esistenza di  sette documenti ufficiali che evidenziano come la Tokeitai (la polizia militare della Marina), obbligasse le donne i cui padri avevano attaccato la Kenpeitai (polizia militare dell’Esercito) a lavorare nei bordelli del fronte cinese, indocinese ed indonesiano; è inoltre presente un’altra fonte che afferma come alcune donne fossero state arrestate per strada e, dopo esami medici coatti, costrette a lavorare nei bordelli. Tutti i documenti erano stati resi pubblici al processo per i crimini di guerra.

Eppure, il governo di Tokyo ha sempre faticato ad ammettere, a riconoscere lo scempio prodotto dai suoi soldati, gli stupri e le violenze ai danni di quelle donne provenienti dai Paesi vicini, e solo grazie al filmato recuperato dai ricercatori di Seul il mondo ha potuto vedere, per la prima volta, una realtà a cui difficilmente adesso gli alti vertici nipponici potranno trovare una giustificazione.

18 secondi, tanto dura il “reportage” realizzato a Songshan, nello Yunnan, dalle forze alleate sino-americane impegnate a combattere l’occupante giapponese, nel settembre del 1944, con la guerra ormai agli sgoccioli. Tanto basta, però, per trasmettere al pubblico il senso di terrore di quelle donne schiacciate contro il muro, una accanto all’altra, come a volersi proteggere reciprocamente, tutto ci fa respirare la loro paura, l’angoscia di quella tragedia che, dall’alto, hanno provato a insabbiare o a minimizzare in tutti i modi.

Proprio grazie al filmato, finito negli archivi americani e recuperato solo nel 2017, trasmesso poi da vari media USA, i ricercatori di  Kang Sung-hyun sono riusciti a confrontare i volti di quelle donne con alcune rare immagini già saltate fuori, riconoscendo, nelle foto di due di loro, due vittime, già identificate: la loro storia è già stata scoperta, e oggi confermata, e, orrore che si aggiunge a orrore, è venuto fuori che una delle due era incinta.

I volti contriti, il modo in cui si muovono, il fatto che fossero scalze: tutto conferma che si trattava di schiave.

Lo ha detto il professor Kang durante una conferenza a Seul ripresa da Reuters e altri media. Ma quello sulle comfort women non è il solo filmato rinvenuto recentemente negli archivi USA: ne sarebbe infatti spuntato un altro, girato sempre nella contea di Longling, in Cina, che immortalerebbe una “fabbrica del sesso”, uno di quei capannoni dove le donne erano tenute schiave.

La controversia sulle comfort women, pagina nera della storia giapponese, era già stata oggetto di conflitti tra il governo nipponico e quello sudcoreano, i quali erano (apparentemente) stati risolti con il raggiungimento di un’intesa e il versamento di una somma pari a 8,3 milioni di dollari a titolo di “rimborso”. Anche se verrebbe più da pensare che in questo modo il premier giapponese Shinzo Abe abbia piuttosto voluto “pagare per il silenzio” e la messa a tacere di tutta la storia, criticato aspramente da Kim Bok-dong anche negli ultimi giorni della sua vita, proprio per questo deleterio negazionismo portato avanti a oltranza.

Tant’è che l’accordo, soprattutto dopo la comparsa del terribile filmato, sembra non soddisfare più nessuno, e che il presidente coreano Moon Jae-in, salito al potere proprio nel 2017, sia riuscito a farsi eleggere in virtù, fra le altre cose, della sua promessa ad impegnarsi per rinegoziare quell’intesa con Tokyo.

Da parte sua, il Giappone è già insorto alla richiesta, mossa da Un Kyu-sok, battagliera esponente del comune di Seul, che l’Unesco riconosca la vicenda delle comfort women “Per tenere alta la memoria dell’orrore”.

È contro l’obiettivo di promuovere l’amicizia e la comprensione dei popoli.

Hanno fatto sapere i vertici giapponesi, cosa che renderà il soddisfacimento della richiesta di Un Kyu-sok da parte dell’ONU piuttosto complesso.

Certo ognuno dei paesi coinvolti cerca di portare avanti la propria versione, e questo è comprensibile. Ma ci sono situazioni in cui, oggettivamente, la cosa più saggia da fare è solo chinare la testa e chiedere perdono.

Gli sguardi atterriti di quelle donne, costrette a prendere parte, a modo loro, a una guerra che non avevano cercato né voluto, pagando spesso con la loro stessa vita alla pari degli uomini impegnati in battaglia, non possono e non devono essere dimenticati. Né comprati, con nessuna cifra.

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