I flussi migratori sono un fenomeno intimamente connesso al genere umano, che da sempre, nei secoli, si è spostato di volta in volta verso nuove zone del pianeta, “fondendosi” con le popolazioni native delle nuove aree conquistate (non sempre con le “buone maniere”, per usare un eufemismo, se pensiamo ai nativi Americani decimati e costretti nelle riserve). E, mentre nell’Unione Europea la questione immigrazione coinvolge a pieno titolo politica, diplomazia e relazioni internazionali, spesso ci dimentichiamo che esiste un altro tipo di immigrazione, non considerata tale poiché non vincolata a richieste di asilo politico o a questioni umanitarie: stiamo parlando delle persone che si spingono all’estero per studio e lavoro.

Nel nostro paese, il numero dei connazionali che sceglie questa strada è in costante aumento.

Secondo un articolo di The Atlantic, oggi circa 258 milioni di persone vivono al di fuori del loro paese di nascita. Entro il 2050, il numero dovrebbe salire a 405 milioni. Questi dati fanno naturalmente riferimento ai flussi migratori nel suo complesso, senza distinzioni tra immigrati per ragioni umanitarie e quelli che, invece, vengono definiti expat. Già, chi sono questi ultimi?

Chi sono gli expat, i “cervelli in fuga”

Così vengono spesso definiti gli expat, ovvero coloro che scelgono di lasciare il paese di origine per cercare fortuna lavorativa e professionale all’estero.

La possibilità di spostarsi all’estero per lavoro, anche se spesso si tratta più che altro di una vera e propria necessità, non sembra essere un problema per i Millennials, tanto che ben il 61% si dice disposto ad espatriare per lavoro, secondo un’indagine condotta da Unige nel 2016, e ancor meno per gli appartenenti alla Generazione Z, ovvero i nati dopo il 1995, che considerano quasi naturale “cambiare aria” a un certo punto della vita.

Chiaro, quindi, che anche l’identikit di chi decide di trasferirsi in un altro paese per lavoro cambi: se fino a vent’anni fa, infatti, erano soprattutto persone già adulte, che spesso si trasferivano con l’intera famiglia a carico e restavano all’estero ricevendo un importante compenso come risarcimento per la prolungata trasferta, oltre che notevoli benefit, oggi sono principalmente i giovani ad andarsene, e non sempre con l’intenzione di tornare. Il sondaggio Expat Insider, ad esempio, ha rivelato che il 72% degli italiani residenti all’estero ha lasciato il paese per guadagnare di più e avere maggiore stabilità politica ed economica; contemporaneamente, il 33% delle donne e il 25% degli uomini sostiene di guadagnare meno rispetto a quello che percepirebbe facendo lo stesso lavoro in Italia, ma nonostante ciò si ritengono soddisfatti dalle opportunità di carriera offerte dal paese in cui si trovano.

Le categorie che oggi si trasferiscono per lavoro sono giovani in cerca del primo impiego, ma anche donne in carriera: rispetto al 15% degli uomini mandati all’estero dal datore di lavoro, quasi la metà delle donne, il 7%, si trova nella medesima situazione.

Le differenze tra expat e immigrato

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Fonte: theatlantic

Cerchiamo di capire cosa distingue gli expat dagli immigrati: nell’immaginario collettivo il termine “expat” richiama lusso, posizioni lavorative di prestigio e carriere ben avviate, mentre generalmente all’immigrato si associano immagini di povertà e disperato bisogno di lavoro da cercarsi in un paese diverso dal proprio. Insomma, due scenari del tutto diversi.

Ma cos’è, esattamente, a differenziare un expat da un immigrato? Il fatto di provenire da un paese considerato ricco e non al di sotto di determinati standard economici? Come ricorda l’articolo di The Atlantic, “la definizione tecnica di un espatriato è una persona che vive e lavora all’estero per un periodo di tempo temporaneo, ma progetta di tornare nel proprio paese“, a differenza di un immigrato, che si trasferisce in un altro paese con l’intento di rimanere permanentemente. Chiaramente, che il tempo passato nel paese sia di 10 mesi o 10 anni poco importa, se l’intenzione è quella, un giorno, di rifare le valigie per tornare.

Yvonne McNulty, docente specializzato in gestione delle risorse umane ed espatrio all’Università di Scienze Sociali di Singapore, ha sviluppato una serie di condizioni collaterali che devono appartenere alla persona affinché la si possa considerata espatriata: oltre a vivere al di fuori del proprio paese d’origine su base non permanente, un espatriato deve anche essere legalmente impiegato per vivere e lavorare nel paese in cui si trova e, naturalmente, non essere cittadino del paese di cui è ospite.

La stessa McNulty ha spiegato che il termine sia spesso usato per descrivere i migranti di alto livello (ovvero quelli altamente retribuiti e altamente istruiti), mentre raramente viene applicato ai lavoratori stranieri che non lo sono, questi ultimi, infatti, tendono a essere indicati come “migranti economici”, persone che hanno lasciato il loro paese per un posto con condizioni di vita e di lavoro migliori. Eppure, la confusione resta, perché, continua la docente, “Rispondono a tutte le condizioni per essere considerati espatriati […] Queste persone sono espatriate in tutto e per tutto allo stesso modo degli occidentali bianchi. Il fatto che siano di un colore diverso [o] il fatto che provengano da un paese povero in via di sviluppo è in larga misura irrilevante quando guardiamo alle condizioni collaterali“.

Insomma, sembra che spesso il termine dipenda più da uno stereotipo culturale che abbiamo, piuttosto che da una vera situazione tipo.

Perché gli expat guadagnano tanto?

Come detto, non è del tutto vero, almeno secondo quanto riportato dal sondaggio di Expat Insider, che gli expat guadagnino sempre più di quanto farebbero nel paese di origine; ma, se a incidere sulla scelta di restare all’estero non è il reddito, spesso lo è l’opportunità di avanzamento di carriera, che in molti paesi sarebbe invece bloccata.

Ci sono varie condizioni per cui gli expat guadagnino bene, rispetto a determinati parametri: ad esempio, come suggerisce questo articolo, si deve guardare alla tassazione del paese in cui ci si trasferisce, alle agevolazioni fiscali e al costo della vita in generale.

Secondo uno studio effettuato da HSBC, condotto in 163 paesi, il 45% degli expat dichiara di guadagnare più soldi per svolgere la stessa mansione all’estero, il 18% di aver ottenuto una promozione. Gli expat, inoltre, acquisiscono anche maggiore esperienza e know how, riuscendo, in questo modo, ad accedere alle posizioni di prestigio una volta tornati nel paese d’origine.

Un expat medio guadagna circa 21 mila dollari in più all’anno rispetto a prima. Dallo studio è emerso che i paesi con i salari medi più alti sono la Svizzera, gli Stati Uniti e Hong Kong.

Le expat italiane più famose

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Fonte: web

Fra le expat italiane più famose ci sono da annoverare sicuramente Benedetta Paravia, di cui abbiamo parlato qui.

Ma anche Silvia Vianello, eletta miglior donna manager del Medio Oriente da Forbes, che con il progetto #unlavoropertutti su Linkedin vuole aiutare i giovani a trovare il lavoro dei loro sogni, mettendo anche a disposizione borse di studio sovvenzionate dal suo Innovation Center.

Fra le altre expat, possiamo citare Elena Caselli, insegnante a Vancouver, trasferitarsi con il marito Luca, i gemelli di sei anni, Leo e Lorenzo, e il cane Nina; Sheila Todisco, assistente sociale di 35 anni, expat ad Hamilton:

Ma tu sei matta! Andare dall’altra parte del mondo? Quante volte me l’hanno detto? Da quasi cinque anni, la mia vita è cambiata – ha raccontato qui – Anzi, ne ho iniziata una nuova. Ho girato tutto il mondo per lavoro, e l’Italia mi è sempre rimasta un po’ stretta: ma gli anni passavano, e io non mi decidevo mai a partire. Poi, finalmente, sette anni fa, ho deciso insieme al mio compagno di visita re Aotearoa, la ‘Terra dalla Lunga Nuvola Bianca’, meglio conosciuta come Nuova Zelanda. Una volta tornati in Italia, abbiamo deciso di lasciare tutto e di trasferirci stabilmente in quella terra ignota.

Nastasia De Icco, avvocato a Mumbai, expat dal 2013 con il marito:

Io e mio marito, che all’epoca era ancora mio fidanzato, stavamo studiando l’ennesimo piano d’emergenza per difenderci dalla terribile pressione fiscale italiana. Io con la mia partita IVA e Diego free lance: entrambi precari per antonomasia. A un certo punto ci siamo guardati negli occhi e ci siamo detti: ‘Scappiamo?’ E così, con il sorriso sulle labbra e un pizzico di ‘lucida follia’, abbiamo progettato la nostra partenza. Oggi siamo lontani da tutto e tutti. E lo saremo per un bel po’ di tempo.

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