Interno giorno. Una frase vibra nell’aria silenziosa:

«Sono io che decido quello che ho intenzione di fare».

A pronunciarla con convinzione, nel nuovo film di Nisha Ganatra L’assistente della star, è l’icona pop – fittizia – Grace Davis (Tracee Ellis Ross): cantante californiana tormentata dal suo manager Jack (Ice Cube) che tenta di persuaderla a non incidere un nuovo disco dopo dieci anni di silenzio. Un desiderio che perseguirà anche grazie all’instancabile supporto della sua assistente, la protagonista Margaret “Maggie” Sherwood (Dakota Johnson), in un cammino ostacolato dai membri della casa discografica e dai produttori.

Tutti, rigorosamente, uomini. E convinti – in una sequela esemplare di mansplaining e aggressiva supremazia – di conoscere quale sia la strada migliore per una superstar che, secondo loro, si troverebbe a pochi passi dall’inizio del declino.

Nel corso della pellicola da poco disponibile su Now Tv, la frase sopracitata – e condivisa sicuramente da molte donne – emerge, però, con frequenza, e in diverse forme espressive. I due personaggi femminili della narrazione lottano, infatti, con determinazione per affermare le proprie inclinazioni e volontà, anche a rischio di porsi contro ciò che l’élite discografica maschile suppone sia professionalmente più idoneo per loro.

Assistere a tali scontri e, soprattutto, ai dissidi interiori della cantante e della sua collaboratrice stimola, tuttavia, un quesito: è ancora necessario, nel 2021, veicolare la dicotomia paternalistica tra “uomini che sanno che cosa sia meglio per te” e “donne indecise, insicure e influenzate da quel stesso coacervo di uomini che si reputano superiori”?

O, meglio: è ancora necessario, nel 2021, produrre film con palesi messaggi sessisti?

Film sessisti: come riconoscerli

Una serie di parametri utili per comprendere se il film che abbiamo scelto di guardare sia sessista viene offerta dal test di Bechdel-Wallace. Nel 1985, la fumettista statunitense Alison Bechdel, ispirandosi all’amica Liz Wallace, ne espresse simpaticamente i criteri nella striscia “The Rule”, appartenente alla serie Dykes to Watch Out For. Nella vignetta, due ragazze – una bianca e una nera – si confrontano per stabilire con quale film trascorrere la serata al cinema, ma, data l’indecisione, la seconda proporrà di effettuare la cernita prendendo in considerazione tre condizioni: la presenza di almeno due personaggi femminili che parlano tra loro di qualsiasi argomento che, però, non riguardi un uomo.

Il test ha dato vita a una molteplicità di interpretazioni e varianti, e, sebbene risulti forse un po’ restrittivo – per comprendere se un prodotto contenga effettivamente contenuti sessisti e/o femministi –, risulta particolarmente funzionale all’osservazione dell’effettiva presenza di figure femminili nelle opere di finzione e alla conseguente indicazione di trame stereotipate nel cinema contemporaneo e mainstream (c’è anche una lista sul sito dedicato al test, qui).

Come accennato, tuttavia, per quanto intuitivo e utile, il test di Bechdel-Wallace presenta dei limiti, e, soprattutto, non viene in soccorso nei casi del sessismo più pericoloso: quello subdolo, nascosto, dissimulato.

La lunga vita degli stereotipi

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Fonte: Planète Cinéphile

Fortunatamente, nel corso degli ultimi anni, la sensibilità nei confronti del tema si è piuttosto acuita. Tuttavia, sono ancora molti i passi da compiere per giungere a una rappresentazione della donna – e, in generale, di persone LGBTQ+ – che si attenga seriamente alle norme di uguaglianza e rispetto degli esseri umani nella loro complessità.

I tentativi svolti dall’industria cinematografica – soprattutto a partire dagli anni 2000 in poi – non sempre hanno raggiunto, infatti, i risultati sperati. Un emblema è Je ne suis pas un homme facile, commedia del 2008 diretta da Eléonore Pourriat che prende l’abbrivio da una provocazione: come sarebbe il mondo se i ruoli di genere fossero sovvertiti?

L’idea, pur se originale in nuce, non centra il suo intento. Dipingendo un mondo “dominato” dalle donne, in cui a essere molestati e denigrati sono – di conseguenza? – gli uomini, la pellicola va incontro a una fallacia ideologica, dove a essere errato è lo stesso impianto sovrastrutturale che ne è alla base: nel tentativo di ridicolizzarli, gli stereotipi sessisti appaiono, così, condotti alla loro massima estremizzazione, in un perfetto rovesciamento di aspettative che non apporta alcuna ricchezza al discorso preso in esame.

Ne deriva che gli uomini siano tratteggiati come “stressati” e “psicopatici” se in disaccordo con il proprio capo (donna), eternamente amorevoli e dolci, oberati di carico mentale domestico, “gattari” e “troppo” emotivi.

E non è la prima volta che succede. All’inizio del millennio, già What Women Want di Nancy Meyers ha messo in scena un Mel Gibson donnaiolo ed egoista che, grazie a una provvidenziale scossa elettrica, riesce a carpire tutti i pensieri delle donne che lo circondano. Le derive sono scontate: dimostrandosi empatico e attento all’inflazionata e onnipresente sensibilità femminile, il «vero macho» riesce a volgere la situazione a suo favore, scostando il “velo di Maya” del pensiero femminile stesso e districandosi tra conquiste e innovative campagne pubblicitarie rubate alla sua responsabile.

Corroborando, così, un’altra declinazione del maschilismo: solo gli uomini sono in grado di comprendere che cosa vogliano davvero le donne, sempre enigmatiche, poco chiare e raramente esplicite. E decise a esprimere il proprio punto di vista solo a bassa voce, o, peggio, nei propri pensieri.

Un canovaccio che, pochi anni dopo (nel 2005), tornerà anche in Hitch – Lui sì che capisce le donne di Andy Tennant, dove un intraprendente Will Smith aiuterà uomini imbranati a conquistare le donne dei loro sogni in poche, semplici, mosse. Come se queste potessero essere “rimorchiate” grazie a una serie di regole rigide. E, soprattutto, sempre identiche. Fortuna che c’è Hitch.

Donna musa ispiratrice e “un passo indietro”

Natasha_Romanoff film sessisti
Fonte: Comics Universe

«Perché quando succede una cosa bella trovi sempre qualcosa, anche un dettaglio insignificante, che rovini tutto?», chiede esasperato il co-protagonista (John David Washington) di Malcolm & Marie alla sua fidanzata e musa ispiratrice (Zendaya), giustamente irata con lui perché non l’ha ringraziata pubblicamente nel corso della prima del suo film. Ciò che si dispiega nella recentissima pellicola di Sam Levinson è uno scontro tra due interiorità sfaccettate, di cui a farne le spese è, però, la componente femminile. Nell’acme del suo stordimento egomaniaco, infatti, Malcolm non esita ad apostrofare Marie come «pazza», «fuori di testa», «gelosa», mentre lei gli cucina il pasto e si assicura di mantenerne integro l’umore in seguito a una serata di successi.

Si tratta di una dinamica vissuta quotidianamente da molte donne, e che possiede un nome preciso: il “potere dell’amore”, come lo definisce la politologa islandese Anna G. Jόnasdόttir. Qui, assistiamo a donne che «esprimono il loro amore prendendosi cura dell’altro, anche se questo significa sacrificare i propri sogni» e, contestualmente, a uomini che «si nutrono di questa relazione per affermarsi nel mondo esterno, anziché ricambiare le loro compagne con la stessa attenzione».

Marie, però, non è l’unica “musa” bistrattata da colui che a lei si rivolge per l’ispirazione artistica. Seppur in modo leggermente dissimile, tale discrepanza si può, infatti, facilmente riscontrare anche in una molteplicità di film dedicati alle vicende dei supereroi, nella maggior parte dei quali alla donna è affidato il mero ruolo di sostenitrice dell’uomo/eroe, o, peggio, di eroina di secondo grado – rigorosamente in abiti succinti.

Gli esempi sono innumerevoli, ma per citare giusto qualche pellicola ricordiamo: Deadpool 2, di David Leitch, dove il mercenario Marvel viene letteralmente guidato dalle apparizioni della fidanzata (morta) Vanessa ogniqualvolta in cui perde la bussola delle proprie azioni; Iron Man 2, diretto da Jon Favreau, nel quale spicca l’imbarazzante scena del primo incontro tra Tony Stark e la nuova assistente Natalie Rushman, reificata e valutata solo per il suo aspetto fisico; o, ancora, Ant-Man, di Peyton Reed, in cui spicca la figura di Hope van Dyne, incaricata di allenare l’eroe e figura carismatica, preparata, intelligente… e non protagonista, se non nelle vesti di “donna-uomo” esclusivamente funzionale all’ottimizzazione delle capacità di colui che ammaestra. Lo stesso concetto che, infine, costella anche Avengers: Endgame, di Anthony e Joe Russo, con eroine inserite quasi per gentile concessione (come nota Giulia Blasi su Esquire), sempre poste a margine e, naturalmente, copie esatte degli uomini, ma con capelli sciolti e minigonne.

Donne, soldi, motori: la figura femminile come trofeo

Un discorso a parte merita, invece, la cinematografia colpevole di sessismo benevolo, ossia quello che assume le sembianze di “complimento” ma cela, nelle sue intenzioni, una propulsione discriminatoria e offensiva. È il caso della triade “donne-soldi-motori”, dove le prime vengono considerate alla stregua di “trofei” o “traguardi” da perseguire e ottenere. E, in seguito, esibire.

È affezionata a questo scenario tutta la saga di Fast & Furious, in cui si susseguono con cadenza regolare e sfacciata scene di gare clandestine e machismo condite con promesse di sesso in caso di vittoria, perpetrate oggettificazioni erotiche – evidenti soprattutto nella scelta di movenze e vestiario – e inquadrature volutamente sensuali e svilenti.

Le medesime che riguardano anche Mikaela Banes (Megan Fox) nei primi due capitoli del ciclo dei Transformers di Michael Bay, vittima di continui ammiccamenti di camera e pose ipersessualizzate, nonché vero e proprio “sogno erotico” del pubblico maschile di riferimento in quanto donna attraente, battagliera ed esperta di motori. Un grandissimo “premio” per il protagonista (uomo), affascinato dal tripudio di così numerose qualità in una sola donna.

Ed è un trofeo, ma in senso differente, anche Tess (Julia Roberts), ex moglie di Danny Ocean (George Clooney) nel primo film della trilogia firmata da Steven Soderbergh. In Ocean’s Eleven, infatti, l’unica donna della narrazione viene ridotta a mera merce di scambio tra i due antagonisti innamorati di lei: da un lato, l’ex marito intenzionato a riconquistarla, e, dall’altro, il nuovo compagno, che, provocato dal primo, affermerà non senza candore di poter rinunciare a Tess in cambio dei soldi sottratti in occasione della rapina al suo casinò. Un esempio eloquente di come, quando si tratta di denaro, la donna risulti la “pedina” perfetta per compiere baratti (e svalutazioni).

E in Italia? Il sessismo cinematografico nostrano

Lolita Lobosco film sessisti
Fonte: Rai

Nel nostro Paese, la donna fatica ancora a ottenere ruoli centrali e non stereotipati. Lo dimostra (l’imbarazzante) filone dei cosiddetti “cinepanettoni”, in cui a essere raffigurate sono sempre donne svampite, sexy, zittite, esposte spesso a body shaming, denigrazioni e poca considerazione.

Ma quest’ultimo riferimento è fin troppo semplice. Un inno alla subdola discriminazione di genere è riscontrabile, infatti, anche in film come Maschi contro femmine e Femmine contro maschi di Fausto Brizzi – matassa di cliché disturbanti –, Come tu mi vuoi di Volfango De Biasi – un self-empowerment riuscito male e uomo-orientato –, Scusate se esisto! di Riccardo Milani – dove un’architetta, pur di ottenere il lavoro corrispondente alla sua qualifica, decide di farsi passare per uomo, ossia l’unico modo per ottenere l’attenzione – o l’ultima fatica di Carlo Verdone, Si vive una volta sola – che, purtroppo, non rinuncia ad alcuni epiteti, trattamenti e cadute di stile tipicamente sessisti.

Fino ai casi più recenti e preoccupanti trasmessi sul piccolo schermo, con fiction Rai fautrici indisturbate di false accuse di stupro e victim blamingLe indagini di Lolita Lobosco, Mina Settembre e Che Dio ci aiuti 6 in primis. Sintomo che, in Italia, la delineazione dei caratteri femminili sembra, purtroppo, non essersi ancora affrancata da dinamiche di subordinazione, stereotipizzazione e patriarcato.

Cambiare è possibile: allenarsi a criticare e superare le discriminazioni di genere

Che cosa fare, dunque? È forse superfluo precisare che i titoli presentati siano giusto una ristrettissima selezione nel mare magnum di opere sessiste. Essi, però, ci offrono già alcune coordinate per aumentare la nostra sensibilità nei confronti della discriminazione di genere in ambito cinematografico, aiutandoci a osservare più a fondo i contenuti che ci vengono offerti a livello prismatico, e non solo superficiale.

La strada che condurrà a un’adeguata rappresentazione della donna è, probabilmente, lunga. E ne è una dimostrazione anche il “dietro le quinte” dei film stessi, dominato da discrepanze dei salari (a scapito delle attrici), scarsa presenza di registe, imbarazzi e disagi sul set (come quello di Keira Knightley con le scene di nudo), molestie sessuali (dal #MeToo in poi: l’ultima a denunciare è stata Sharon Stone) e declinazioni affini.

In attesa del cambiamento, quindi, alleniamoci a criticare e a notare quello che ancora non va. E, soprattutto, impariamo a far sentire la nostra voce.

Qui di seguito, una gallery con alcuni grandi classici del cinema internazionale: cult, ma sessisti.

Quando a essere sessista è il film: gli stereotipi sulle donne nel cinema
La bella addormentata nel bosco
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