Che una ragazza oggi sogni di giocare a calcio, per fortuna, non fa più notizia (o quasi), soprattutto perché, anche nel nostro Paese, la grande impresa delle azzurre di Milena Bertolini giunte ai quarti di finale dei Mondiali 2019 in Francia ha acceso i riflettori sulla versione femminile dello sport nazionalpopolare per eccellenza.

Ma provate a pensare a quando, nel 1978, una bella ragazza con lunghi ricci castani è scesa in campo per la prima volta con la maglia della Nazionale, in una partita contro la Jugoslavia: nello stesso anno in Italia è stata approvata la legge 194 sull’aborto, il diritto di famiglia era stato riformato appena tre anni prima ed esisteva ancora il delitto d’onore, per intenderci.

Si può dunque avere un’idea di come il calcio femminile fosse preso all’epoca, e in effetti alcune di quelle idee stereotipate non se ne sono mai andate del tutto, vista la lotta che tutt’oggi le calciatrici portano avanti per eliminare il gender pay gap rispetto ai colleghi uomini e, soprattutto, per essere considerate professioniste a tutti gli effetti (al momento è stata solo approvato un emendamento del senatore Nannicini per sgravi su contributi assistenziali e previdenziali per le società sportive femminili per le prossime tre stagioni, a partire dal 2020).

Ma delle risatine sardoniche e dei commenti di chi diceva che il calcio non è “roba da donne” Carolina Morace se n’è sempre infischiata, e dopo una brillante carriera da calciatrice, con un palmarès davvero invidiabile, la giocatrice italiana più famosa di sempre ha deciso di sedersi in panchina per allenare, riuscendo anche nell’impresa – impossibile – di vedersi affidata una squadra maschile: la Viterbese di Luciano Gaucci, nel campionato di serie C del 1999.

Mi sento più rispettata e stimata qui – disse in un’intervista del 2016, quando era stata chiamata a occupare la panchina di Trinidad e Tobago – Quando sono arrivata sembrava fosse sbarcato Mourinho. Non me la sento più di tornare in un ambiente in cui lotti in solitaria senza nessuno che ti sostiene. In Italia mi dà molto fastidio un aspetto: un allenatore uomo che vince viene riconosciuto mentre una donna no. Io ne sono l’esempio. Con il Canada ho vinto quello che equivale all’Europeo ma quando si dice: chi sono gli allenatori che hanno vinto all’estero, il mio nome non esce mai. E quell’anno abbiamo battuto gli Stati Uniti, formazione numero uno al mondo.

Il Canada, allenato da uno staff totalmente italiano e che da uno studio della Fifa sia risultata la squadra meglio allenata dove le giocatrici esprimevano la velocità maggiore in varie categorie, non è minimamente menzionato. Ho fatto molto come giocatrice e come allenatrice e se fossi stata uomo, come minimo, anche senza panchina oggi sarei almeno commentatrice di Sky.

In realtà, dopo quell’esperienza Carolina in Italia ci è tornata, come allenatrice del neonato Milan femminile – l’esperienza si è conclusa il 13 maggio 2019 – ma certo il suo pensiero sul tipo di accoglienza che il nostro Paese riserva a chi è stato un monumento del calcio rispetto all’estero è chiaro e tuttora valido.

Come detto, in fondo, solo grazie alla grande avventura delle azzurre ai campionati del mondo francesi del 2019 il calcio femminile ha iniziato ad appassionare gli spettatori, nonostante il campionato si disputi regolarmente da anni; e ci sono comunque molti esempi, purtroppo, che fanno comprendere quanto ancora lontani siamo dal considerare davvero a livello paritario le due versioni di questo sport.

Anche per questo Carolina Morace non ha mai smesso di battersi; e per abbattere ulteriori pregiudizi ha scelto, nell’ottobre del 2020, di fare il suo coming out, anche se nessuno l’avrebbe mai obbligata a farlo. Lo ha fatto per uno scopo ben preciso, come ha rivelato al Corriere.

L’ho fatto naturalmente per loro, per le più giovani, ma l’ho fatto anche per molte mie amiche quarantenni o cinquantenni che ancora non trovano il coraggio di raccontarsi. Il mondo del calcio è pieno di pregiudizi e di omofobia. Non biasimo chi non fa coming out. Per molti uomini il non farlo è una forma di protezione. Credo che sia giusto farlo quando si è pronti, quando si è sicuri di poter togliere la maschera e non rimetterla più.

Il problema, però, secondo Carolina, è di mentalità; lo dice pensando al diverso approccio della moglie, Nicola Jane Williams (anche lei ex giocatrice) all’argomento:

 Lei ha ricevuto un’educazione diversa: in Australia, come in molti altri Paesi del mondo, il fatto che due persone dello stesso sesso si amino non interessa a nessuno. Lei stessa, nei primi tempi della nostra storia, quando veniva in Italia, si meravigliava del peso che diamo a queste scelte. E solo con lei sono riuscita a essere vera, senza maschere. Adesso non mi nascondo più.

Ma di mentalità, in fondo, si tratta anche quando si parla della considerazione di alcuni uomini nei confronti delle donne che giocano a calcio, o che lo amano: gli insulti sessisti riservati ad arbitri donne, le battutine – sempre a sfondo sessuale, chiaramente – riservate alle giocatrici anche in occasione dell’ultimo Mondiale sono la prova più lampante del fatto che ancora ci sia la volontà, in generale, di voler in qualche modo delegittimare e mortificare il calcio femminile, ritenendolo solo una “brutta copia” della versione maschile.

Così come le difficoltà oggettive tuttora riscontrate dalle bambine che fin dall’infanzia vogliono approcciarsi al calcio, la scarsità di scuole calcio che ammettono delle ragazze e la tendenza, comunque preponderante, anche laddove esistano, di voler dividere tra le donne, che faranno questo sport “per hobby”, e gli uomini, lanciati invece verso il professionismo.

Tutto ci fa ancora pensare che c’è una strada lunga e tortuosa da fare per azzerare il gap, mentale prima di tutto; e che delle Caroline Morace abbiamo davvero un gran bisogno.

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Carolina Morace, la signora del calcio, e il teorema dell'Italia maschilista
Fonte: web
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