Vittime della persecuzione e della follia nazista non furono soltanto gli uomini, ma anche le donne. Ebree, rom, malate mentali, minorate fisiche, ma anche polacche, romene, slave, erano spesso sottoposte a un trattamento eccezionalmente brutale proprio per la loro apparente debolezza e minor resistenza al lavoro e alle privazioni. Ma nonostante questo, sono numerose le donne sopravvissute all’olocausto che hanno voluto portare la loro testimonianza.

Sono passati ormai più di 60 anni dalla liberazione dei campi. Il numero dei reduci ancora in vita sta diminuendo drasticamente. Proprio per non dimenticare, il Museo Memoriale dell’Olocausto degli Stati Uniti ha raccolto e reso disponibili numerosissime testimonianze di chi ha vissuto l’olocausto sulla sua pelle. Il sito (www.ushmm.org) ha una nutrita sezione in italiano incentrata sulle donne, dove è possibile ascoltare e leggere in traduzione storie dai campi e dai ghetti: storie di drammatica e assurda violenza, uccisioni di innocenti, aborti, esperimenti su donne in stato di gravidanza, sterilizzazioni coatte, stupri motivati dalla “pulizia” razziale. Atrocità che rendono quasi incredibile la possibilità che tutto ciò sia successo veramente e che spesso diventano lo spunto per ignoranti teorie negazioniste.

Ma se dell’Olocausto si iniziasse a parlare mostrando la straordinaria forza di chi ha saputo reagire? Per una volta, lasciamo stare i particolari più truci e concentriamoci sulla storia che ci viene raccontata dalla voce di Charlene  Schiff, ebrea polacca nata a Horodov nel 1929. Il padre di Charlene era professore di filosofia all’Università Statale di Lvov. Quando i Tedeschi invasero l’Unione Sovietica nel giugno 1941, l’uomo venne arrestato e lei non lo rivide più. In seguito Charlene, sua madre e sua sorella furono obbligate a trasferirsi nel ghetto che i Tedeschi avevano istituito a Horochow.  La situazione nel ghetto era drammatica: si viveva in condizioni precarie dal punto di vista igienico e nutrizionale, con l’aggravante del clima estremamente rigido della Polonia. Ma nonostante la fame, la stanchezza e l’incertezza per il futuro, alcune donne (compresa la madre di Charlene) riuscirono ad organizzare una scuola clandestina per i bambini del ghetto. “Era una cosa fantastica, – dice Charlene, che all’epoca aveva 12 anni – perché avevamo qualcosa di bello da aspettare con impazienza. Ci permetteva di dimenticare la fame e tutto ciò che ci mancava in quelle condizioni di vita così primitive. La scuola rimase attiva per diversi mesi. Molte delle signore, inclusa mia madre, facevano dei baratti all’esterno e portavano a casa matite, carta per scrivere, persino alcuni libri; poi ci raccontavano storie e noi cantavamo canzoni e coloravamo ed era una cosa bella, che aspettavamo con impazienza”.

Il sogno  dei bambini del ghetto, purtroppo, finì con l’irruzione delle SS e la deportazione. Charlene riuscì a salvarsi nascondendosi nei boschi prima della retata: così non fu per la madre e la sorella, di cui si sono perse le tracce. Ma la forza di queste donne non deve essere dimenticata: e denuncia la assurda follia di questo atroce periodo molto meglio di tanti racconti di violenza.

 

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