Bodily Autonomy: il diritto inalienabile sul proprio corpo

L'espressione Bodily Autonomy, ossia "autonomia del corpo", si riferisce al diritto inalienabile di ciascun individuo di esercitare il pieno e indiscutibile controllo sul proprio corpo, senza ingerenze da parte di istituzioni mediche o governative e influenze culturali, coercizioni o imposizioni esterne. Un diritto che, però, è ancora troppo spesso negato. Scopriamo perché.

“Il corpo è mio e decido io”. Ma è davvero così, soprattutto quando si parla di donne, persone transgender e/o non binarie e persone con disabilità? Di fronte a criminalizzazioni dell’aborto, negazione delle cure ormonali, impossibilità di accedere a servizi medici informati e sicuri e alla sorveglianza e sessualizzazione del corpo (in particolar modo femminile), viene da chiedersi quale sia lo stato di salute della cosiddetta “Bodily Autonomy” nel 2025.

Vediamo di che cosa si tratta nel dettaglio e quali sono le sue peculiarità.

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Bodily Autonomy: storia di un diritto universale, spesso negato

L’espressione Bodily Autonomy, ossia “autonomia del corpo”, si riferisce al diritto inalienabile di ciascun individuo di esercitare il pieno e indiscutibile controllo sul proprio corpo, senza ingerenze da parte di istituzioni mediche o governative e influenze culturali, coercizioni o imposizioni esterne.

Il concetto costituisce, dunque, uno dei diritti fondamentali dell’essere umano e possiede una natura trasversale, dal momento che concerne la salute, la sessualità, la privacy, l’identità di genere, la disabilità, la genitorialità, la giustizia sociale, la bioetica e, in definitiva, la libertà di scelta di ciascuno di noi. Una libertà che, però, vediamo troppo spesso negata, impedita e sorvegliata, con conseguenze pericolose per il benessere psicofisico del singolo soggetto e per la sua autodeterminazione.

Non è un caso che la Bodily Autonomy affondi le proprie radici nella tradizione filosofica dell’Illuminismo, in particolare nel pensiero di filosofi come John Stuart Mill – che, nel suo saggio On Liberty, afferma che l’individuo debba essere sovrano su se stesso, sul proprio corpo e sulla propria mente, purché le sue azioni non danneggino altre persone – e Immanuel Kant – il quale, con il principio cardine della sua etica, ossia l’Imperativo categorico, sostiene che ogni persona debba essere trattata come un fine in sé, e mai come un mero mezzo.

Il concetto è stato, in seguito, ampliato e ripreso anche dalla Dichiarazione Universale dei Diritti Umani del 1948, che stabilisce il diritto alla vita, alla libertà e alla sicurezza della persona, dal Patto Internazionale sui Diritti Civili e Politici, documento che rafforza i principi suddetti proibendo la tortura e i trattamenti inumani o degradanti, e dai movimenti femministi, in particolare dal femminismo statunitense degli anni ’70 del ‘900 – che, durante la lotta per la legalizzazione dell’aborto, ha usato claim come “My Body My Choice” -, per poi apparire nei volumi di bioetica, diritti delle donne e giustizia riproduttiva tra la fine degli anni ’80 e l’inizio degli anni ’90 e giungere, così, fino ai dibattiti odierni.

Sessualità, genere e riproduzione: il corpo come campo di battaglia

Peccato che queste premesse non siano sempre state rispettate, e non lo siano tuttora, in molteplici parti del mondo (Italia inclusa). Il corpo è, infatti, divenuto, a tutti gli effetti, un campo di battaglia e un “oggetto” politico, soprattutto per quanto concerne le donne, le persone trans e gli individui con disabilità, come dimostrano le lotte per il diritto all’aborto, alla contraccezione, alla libertà sessuale, all’accesso alle cure e alla transizione di genere ancora particolarmente vivide.

Lotte che non rappresentano solo rivendicazioni individuali, ma vere e proprie battaglie collettive, finalizzate a ridefinire il ruolo del corpo all’interno della società. Si pensi, ad esempio, alla salute sessuale e riproduttiva, dove la Bodily Autonomy si traduce nella possibilità (concreta, e non solo promessa) sia di accedere a cure informate, sicure e strutturate e a un’educazione sessuale reale e solida, fin dalla più giovane età, sia di poter scegliere se e quando diventare genitori (nello specifico, madri). Eppure sono ancora numerosissimi i Paesi in cui le donne non possiedono la libertà di decidere neanche se abortire o fare ricorso a un contraccettivo, perché assoggettate al controllo di padri, mariti, fratelli, autorità religiose o medici.

Un altro emblema della negazione coatta della Bodily Autonomy è, poi, la sterilizzazione forzata delle persone con disabilità, ancora consentita, tra gli altri, in 14 Paesi dell’Unione Europea e svolta da tutori legali o altre autorità, senza il consenso libero e informato da parte degli individui coinvolti. Si tratta, infatti, di una pratica effettuata con l’intento di “proteggere le donne con disabilità da gravidanze indesiderate”, “evitare il rischio che vengano abusate sessualmente” e/o “alleggerire il carico mentale e pratico delle famiglie e dei servizi sociali”.

Senza dimenticare, infine, le difficoltà che devono subire le persone transgender e non binarie, costrette a lunghissimi, snervanti e mortificanti iter psichiatrici per vedersi riconosciuto il diritto di decidere della propria identità di genere e di accedere alla sequela di cure correlate. In innumerevoli contesti, inoltre, addirittura l’abbigliamento stesso diviene oggetto di sanzione legale e/o discriminazione: un dato che sottolinea quanto il giudizio sui corpi e sulla loro espressione sia ancora pericolosamente e capillarmente radicato nel contesto socio-culturale di riferimento.

Prospettive e sfide future: tra bioetica e nuove tecnologie

Rivendicare la Bodily Autonomy significa, dunque, affermare che nessun potere e nessuna ingerenza – proveniente dalla religione, dalla politica, dalla medicina o dalla cultura – abbia il diritto di disporre del corpo di un altro essere umano senza il suo consenso. Si tratta, allora, di un principio universale, che riguarda tutti, dalle donne ai bambini, dalle persone transgender ai soggetti con disabilità.

Un principio che l’avvento delle nuove tecnologie mediche e biopolitiche sta, però, mettendo in seria discussione, corroborando uno scenario, come abbiamo visto, già di per sé minacciato e in bilico. La possibilità di modificare geneticamente gli embrioni, l’uso dell’intelligenza artificiale in ambito sanitario, le protesi bioniche o la crioconservazione aprono, appunto, scenari inediti e inaspettati, dove il confine tra naturale e artificiale, umano e macchina e scelta e condizionamento diviene sempre più labile e sfumato.

In questo senso, viene, quindi, da porsi un quesito: in un mondo dove il corpo può essere potenziato, sorvegliato e persino riprodotto, che cosa significa davvero essere liberi di scegliere? Se da un lato, infatti, la tecnologia presenta opportunità senza precedenti per l’emancipazione degli esseri umani, dall’altro, tuttavia, rischia anche di tramutarsi in un nuovo strumento di controllo, mediante, per esempio, la raccolta di dati biometrici, l’uso delle neurotecnologie e la privatizzazione dell’accesso alla salute.

Questioni con cui la bioetica si sta confrontando da decenni e si confronta tuttora, cercando di porre in dialogo l’autodeterminazione con l’equità, la giustizia sociale e il consenso informato, e assicurandosi, inoltre, che le nuove tecnologie non costituiscano nuovi strumenti di esclusione a mero appannaggio dei corpi privilegiati, ma siano un mezzo a disposizione di tutti.

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