Come la diversità rischia di diventare merce durante il mese del pride

Il mese del pride si avvicina e la quantità di arcobaleni e dichiarazioni di inclusività si moltiplica in maniera esponenziale. Ma si tratta davvero di un approccio atto ad abbracciare la diversità o è solo un’altra forma di capitalizzazione dell’identità?

Il mese del pride è arrivato e la quantità di arcobaleni e dichiarazioni di inclusività si moltiplica in maniera esponenziale. Ma si tratta davvero di un approccio atto ad abbracciare la diversità o è solo un’altra forma di capitalizzazione dell’identità?

Nel mese di giugno i cartelloni pubblicitari, gli avatar degli account Instagram delle aziende, le home page dei siti e i discorsi pubblici si riempiono di bandiere arcobaleno. Al contempo, nei negozi spuntano capi d’abbigliamento decorati con unicorni, frasi e rimandi al mese del pride.

Anzi, a ben guardare sono proprio i negozi di abbigliamento, e di un certo tipo di abbigliamento, a modificare in maniera drastica la propria presenza pubblicitaria e social.
È stato coniato un termine specifico per descrivere questa forma particolare di campagna pubblicitaria mirata a mostrare un’immagine virtuosa delle aziende non necessariamente coerente con la pratica aziendale: social washing. Nelle sue varie declinazioni esso muta in greenwashing, pink washing e rainbow washing. La semplificazione linguistica che deriva dall’uso pop di questi termini, però, rischia di non restituire la gravità del fenomeno. Non si tratta di una tintura fittizia, ma di un abuso vero e proprio.

L’attenzione per le istanze civili allarma il sistema capitalista, portandolo ad escogitare meccanismi adattivi che gli consentano di lucrare sule cause stesse, senza che però queste riescano a raggiungere i propri scopi. L’idea che nel mese di giugno, in Italia, i brand di fast fashion vendano capi ricoperti di arcobaleni si accompagna a pubblicità in cui vengono mostrate soggettività non cisgender e non eterosessuali. Quello che da un lato viene proposto come rappresentazione, l’inclusione di soggetti e identità altrimenti cancellate dalla proposta standard, è in realtà un uso di tali identità allo scopo di vendere un prodotto.

La presenza del prodotto opera da strumento di cancellazione coprendo la costruzione e la gestione del prodotto spesso. Infatti, le soggettività così esposte nelle pubblicità sono le prime che vengono sfruttate nelle fabbriche, che non vengono tutelate negli ambienti di stoccaggio e vendita e che, purtroppo, non vengono contemplate come acquirente nella complessità delle loro esigenze. E se questo accade nelle grandi catene di franchising, le aziende che non hanno a che fare con la vendita diretta in negozio non sono da meno.

Se nell’ambiente lavorativo la diversità non viene tutelata che senso hanno le campagne arcobaleno proposte? Non hanno un senso, ma uno scopo preciso: vendere una certa idea dell’azienda stessa. Fare in modo che i consumatori, classificazione umana a cui siamo tutti degradati in maniera diversa e che spesso espelle proprio le persone con cui sono riempiti i cartelloni, si affezionino a quell’immagine dell’azienda e ne sostengano il lavoro. Questo permette ai gruppi commerciali e aziendali di mettere una piccola croce sulla voce diversità, come se la sua inclusione nel sistema lavoro iniziasse e finisse con una finta idea, sempre molto stereotipata, di esposizione, perché non è rappresentazione, e targhettizzazione come nuovo pubblico/consumatore.

Il sistema ha percepito la diversità come prodotto vendibile e sublima l’identità e il suo riconoscimento come meccanismo di vendita, inglobandola in quella tremenda dinamica del corpo-prodotto che consente uno sfruttamento fisico e ideologico per uno scopo che nulla a che fare con i diritti umani. Inoltre, la presenza consistenze di campagne di lavaggio di immagine contribuisce ad aspirare una buona porzione della portata politica delle lotte. Ascrivendole a prodotto, il capitale nega la loro complessità e pervasività politica, traducendole in una transazione riesce ad allontanarle dal loro valore intrinseco attribuendone uno puramente materiale.

Soprattutto, fingendosi amante della diversità quel tanto che basta per una campagna di marketing non solo si conferma opposto alla pluralità umana, perché contemplandola solo come strumento e per un limite di tempo non fa che rinforzare l’idea che questa sia un’eccezione ad una regola più giusta, ma evita che venga portato avanti quel discorso complesso sul suo ruolo nella discriminazione. Il capitalismo, infatti, è un sistema eretto sulla disuguaglianza che necessità di una massa abnorme sfruttata e cancellata, la cui oppressione viene giustificata in nome della ricchezza.

Le campagne di marketing selezionano corpi vendibili, biografie dalla cui narrazione si può ottenere margine e selezionano specifici periodi per ricordare ai potenziali clienti la loro attitudine virtuosa nei confronti della complessità umana. Nella realtà pratica, però, le assunzioni, la ripartizione del monte ore lavorativo, la disparità salariale, la sicurezza dei dipendenti rimangono viziate dalle discriminazioni sistemiche, e l’azienda nemmeno se ne cura. Dopotutto, basta mettere una bandierina accanto al carrello degli acquisti o ricordarsi di indicare un ente di beneficenza verso cui verrà devoluta una percentuale del guadagno per abbracciare la diversità giusto?

Questo è il comportamento tipico e funzionale del capitale che si ricorda delle persone LGBTQ+, delle persone disabili, delle persone razzializzate, delle donne e di tutte le minoranze solo quando può trasformarle in materiale tramite cui produrre o estrarre ricchezza.

Perché la disuguaglianza venga distrutta, in tutte le sue molteplici e multidimensionali forme deve prima essere eradicato il sistema che la mantiene in essere. Per tutelare la diversità serve una profonda ristrutturazione della mentalità sociale e del sistema patriarcale capitalista e suprematista.

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