Strappati dal loro paese, ingabbiati, maltrattati, sfruttati, esposti per il divertimento del pubblico pagante. Per chi ama gli animali, e impossibile non inorridire di fronte alle condizioni degli animali in cattività in molti zoo del mondo. Ma cosa pensereste se vi dicessero che a subire questo trattamento disumano per oltre un secolo sono state anche le persone nere, con la sola colpa di essere “esseri umani inferiori”?

A ricordare uno dei periodi più bui della storia coloniale europea è esserenero, che in un post sul profilo Instagram ricorda la vergogna degli zoo umani, attivi dall’inizio del 1800 fino a circa 60 anni fa.
Un post che abbiamo trovato sul nostro feed e a cui vorremmo fare da cassa di risonanza.
Se gli studi decoloniali stanno iniziando a far luce sugli orrori del colonialismo, tra cui le infami esibizioni umane, infatti, ancora troppo spesso facciamo fatica a svestire i panni del white savior e a non rubare la parola monopolizzando il discorso pubblico. Invece che obbligare gli altri a delegare il racconto della propria storia, dobbiamo invece fornire spazi e voce.

In condizioni igieniche precarie, ridotti in schiavitù, racconta il post, uomini e donne provenienti dall’Africa erano esibiti come animali non solo per divertire il pubblico occidentale mostrando la vita selvaggia e “primitiva”, ma anche per provare la loro inferiorità biologica. Alla base degli zoo umani, infatti, c’era la condizione razzista – ai quei tempi avallata da scienziati e antropologi – che la provenienza determinasse la superiorità o l’inferiorità della “razza”.

Ovviamente, al vertice della piramide c’erano gli uomini bianchi occidentali, mentre i neri venivano classificati dagli scienziati come vie di mezzo tra un essere umano e un orango. Sin dal XVII secolo, infatti, esploratori e naturalisti credevano che le popolazioni africane  fossero “l’anello mancante” della “specie” a metà tra scimmie e umani e tentarono di provare che avessero tratti e comportamenti simili ad animali. Le barriere fisiche interposte tra visitatori e turisti e i “selvaggi”  servivano proprio a sottolineare il concetto di separazione e affermare una supremazia razziale, un dominio economico, ma anche etnico, dell’Occidente.

A essere esibiti e presentati al pubblico erano esseri umani provenienti per lo più da terre esotiche, non solo dai paesi africani ma anche da quelli asiatici, che tra il XIX e il XX secolo arrivarono in Inghilterra, Francia e Germania per essere esposti negli zoo. Quest’ultimi approdarono anche in Italia negli anni Quaranta, complice il Fascismo, ed ebbero un certo successo.

Diverso è il caso delle esposizioni internazionali – come quella di Bruxelles del 1958 – concepite come esposizioni in senso moderno, in cui ogni padiglione presentava ricostruzioni di scene di vita ‘straniera’ per permettere a curiosi o interessati di conoscere popolazioni geograficamente e culturalmente distanti. Ciò che accadeva in queste esposizioni erano delle messe in scena. Sebbene di dubbio gusto, non c’erano “esemplari in gabbia”: i partecipanti percepivano un pagamento e non erano costretti a restare all’interno del villaggio. Una volta terminati gli spettacoli, tutti erano liberi di uscire; non c’erano maltrattamenti e sceglievano liberamente di partecipare.

Le situazioni di sottomissione e violenza sono state però tutt’altro che rare, soprattutto nei decenni precedenti al ’58: scomparvero solo dopo la Seconda Guerra Mondiale, con la fine del sistema coloniale, e si parla di circa dieci milioni di vittime all’interno di queste strutture, uomini, donne e bambini.

Amy Erdman Farrel in Fat shame. Lo stigma del corpo grasso, riflettendo sul rapporto tra grassofobia e razzismo ricorda Saartije Baartman, meglio conosciuta come la “venere ottentotta“, che venne portata in Inghilterra nel 1810, dove per quattro anni venne messa in mostra per pochi scellini, come una delle tante attrazioni esotiche dell’epoca, una “curiosità umana” come nani, persone molto grasse e altri freak:

su un palco alto un metro e mezzo, lungo il quale era guidata dal suo custode ed esibita come una bestia selvaggia: le veniva ordinato di camminare, alzarsi e sedersi.

Dopo la sua morte, nel 1815, il suo corpo venne sezionato, concentrandosi in particolare sul cervello,
i genitali, i seni e le natiche per redigere un saggio che forniva le prove “definitive” del suo status di inferiorità.

Mezzi umani, mezzi animali: chi non considerava queste persone al pari degli occidentali non si faceva scrupoli nel mantenerli in condizioni disumane.

Costretti vivere insieme ad animali selvaggi, venivano abusati, spesso morivano di freddo o malattie sconosciute, si esibivano nei cosiddetti freak show. Erano soggetti a sperimentazioni scientifiche e partecipavano a competizioni atletiche per dimostrare la loro inferiorità biologica paragonata a quella dei caucasici.

Il post riporta il catalogo degli orrori a cui gli zoo umani hanno sottoposto le persone nere. Forse, però, a esprimere al massimo il disprezzo per queste vite è il cartello esposto dal belga Leopoldo ii quando seppe che molti tra i 267 uomini, donne e bambini deportati dal Congo si ammalavano a causa de cibo dato dal pubblico: «non date da mangiare agli animali».

Molte persone morirono di malattia, come polmonite e influenza, ma anche il destino dei sopravvissuti di segnato in maniera indelebile, come ricorda essere ero che cita il caso di Ota Benga, un giovane di 23 anni che all’epoca era divenuto l’attrazione maggiore allo zoo di st. Louis, dove veniva rinchiuso in una gabbia insieme alle scimmie.
Dopo essere riuscito a realizzare il suo grande desiderio di tornare nel paese natio, non riuscì mai più a sentirsi parte del luogo e, a causa del senso di disagio e dei traumi subiti, si suicidò nel 1916.

 

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