Imparare a gestire una perdita è un percorso lungo e doloroso in ogni fase della vita. Lo è ancor di più quando qualcuno di importante ci lascia quando si è molto piccoli e non si hanno gli strumenti per affrontare il lutto. Spesso, si finisce per sentirsi abbandonati, e soli.

Proprio per aiutare questi piccoli e le loro famiglie, in diverse parti del mondo sono nati e continuano a moltiplicarsi i cosiddetti “grief camp”, i campi del dolore in cui bambini e adolescenti vengono accompagnati attraverso l’elaborazione del lutto, per poter iniziare a guarire.

Camp Erin è il più grande programma statunitense per “i giovani in lutto per la morte di una persona significativa nella loro vita”, offerto gratuitamente in ogni città della Major League di baseball e in altre località negli Stati Uniti e in Canada. Qui,

bambini e ragazzi di età compresa tra 6 e 17 anni partecipano a un campo trasformativo della durata di un fine settimana che combina le attività tradizionali e divertenti del campeggio con educazione al dolore e supporto emotivo, gratuitamente per tutte le famiglie. Guidato da professionisti del dolore e volontari qualificati, Camp Erin offre ai giovani un’opportunità unica per elevare i livelli di speranza, aumentare l’autostima e soprattutto per imparare che non sono soli.

È proprio la sensazione di solitudine che sembra accompagnare i bambini che stanno affrontando il lutto. Non solo per il vuoto lasciato dalla persona cara che non c’è più, ma anche per quello che sembra circondarli a causa della loro perdita, quando gli amici si allontanano perché non sanno come gestire la situazione e gli adulti, seppure mossi dalla compassione, non permettono loro di esprimere quello che sentono.

Come Yaren, la protagonista di “Yaren and The Sun”, il documentario del New York Times dedicato ai grief camp, e i piccoli che come lei hanno frequentato Missing You, un campo del dolore estivo in Belgio. Nelle loro parole, la sensazione di isolamento è fortissima, così come fortissimo è il peso di non sentirsi compresi.

Qual è la differenza tra un campo del dolore e gli altri campeggi?

È difficile parlarne negli altri campi. Qui ti capiscono, forse perché hanno passato la stessa cosa.

È vero. È qualcosa che tutti abbiamo in comune.

Il focus di questi campi è proprio sull’incontro con persone che hanno condiviso stessa esperienza di vita, sulla possibilità di abbracciare il proprio dolore invece di nasconderlo e – grazie all’equilibrio tra le attività ludiche e il lavoro di gruppo sulla perdita, il suo significato e la sua gestione – sulla strada verso la “guarigione”, spiega il sito dei grief camp Crossroads Kids:

Dopo aver sperimentato la morte di una persona cara e il dolore che ne consegue, i bambini possono iniziare a sentirsi esclusi dai loro normali gruppi sociali, intorno ai loro coetanei.
I bambini che frequentano i campi di lutto riconoscono la lotta reciproca e stringono amicizie durature nel loro cammino verso la guarigione. Chi frequenta i campi costruisce amicizie significative che durano ben oltre la loro permanenza al campo.
All’interno dell’ambiente del campo, incentrato sul gruppo, i bambini giocano, creano, condividono i pasti e superano le sfide con altri campeggiatori – di diverse culture, etnie e nazionalità – che stanno affrontando le stesse lotte che stanno affrontando loro.
Formando questi nuovi legami di amicizia, si rendono conto che non sono soli nel loro dolore e che non c’è limite a ciò che può essere superato lavorando insieme agli altri.

Anche il sito di Camp Erin spiega che in questi spazi i bambini possono:

  • • Raccontare la loro storia in un ambiente sicuro
  • • Elaborare il dolore in modo sano
  • • Incontrare amici che affrontano circostanze simili
  • • Imparare che non sono soli
  • • Costruire una cassetta degli attrezzi di capacità di coping
  • • Onorare e commemorare i propri cari
  • • Divertirsi!

Anche se l’idea di un campo del dolore evoca scenari cupi e tristi, infatti, il divertimento è parte integrante dell’esperienza dei grief camp in cui, proprio come in ogni weekend in campeggio, i bambini giocano, ballano, ridono, stringono amicizie destinate a durare una vita o un solo giorno.

La differenza è che in questi luoghi possono farlo assieme a qualcuno che li capisce davvero, che qui possono essere davvero se stessi senza dover nascondere la loro perdita. Una perdita – e il dolore che la accompagna – che, sebbene non li definisca, è parte di loro e non può essere ignorata, come spesso accade. «In fondo», si chiedono (e ci chiedono) provocatoriamente Renate Raman e Joren Slaets, autori del documentario del NY Times, «chi vuole parlare di lutto?».

Chi frequenta un campo del dolore invece può, se vuole, parlare del proprio dolore, raccontare e ricordare la persona cara che ha perso, fare arteterapia, lavoretti e attività di gruppo dedicate a onorarla (ad esempio le candele del ricordo), condividere la propria esperienza in uno spazio protetto e pronto ad accogliere quello che vorrà condividere.

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