Jigai, il suicidio rituale praticato dalle donne giapponesi per ribellione e difesa

Versione femminile dell’harakiri, lo jigai veniva compiuto dalle donne nipponiche per difendere il proprio onore e, spesso, per evitare di divenire vittime di stupri e violenze in caso di sconfitte militari. Un gesto estremo di autoconservazione e dignità.

Lo “jigai” più famoso è sicuramente quello compiuto da Cho Cho-San. La “Madama Butterfly”, soprannome della giovane ragazza giapponese protagonista dell’opera omonima di Giacomo Puccini, decide, infatti, di togliersi la vita con il pugnale ereditato dal padre (e con cui egli, a sua volta, si suicidò), in seguito all’abbandono dell’ufficiale Pinkerton.

Ad accompagnare il gesto estremo, la frase simbolica incisa sul coltello: «Colui che non può vivere nell’onore, muore con onore». Ed è proprio questo il concetto alla base del suicidio rituale dello jigai: mantenere integro l’onore, a tutti i costi. Anche se ciò significa rinunciare alla propria vita e immolarsi al sacrificio della stessa.

Un vero e proprio atto di ribellione e “autoconservazione” al quale le donne giapponesi hanno ricorso, nell’arco dei secoli, per preservare la propria dignità o eludere situazioni dannose, e che, ancora oggi, ci racconta molto del coraggio e della tempra delle sue vittime. Vediamone i dettagli.

Jigai: che cos’è e cosa significa

Il termine “jigai” (derivato, probabilmente, dal verbo indicante l’azione del suicidarsi, “jiatsu”) designa il metodo tradizionale di suicidio rituale effettuato dalle donne nipponiche – e tuttora praticato, in alcuni casi – mediante il taglio della vena giugulare o dell’arteria carotide.

Equivalente femminile dell’“harakiri” tipico dei samurai, lo jigai veniva compiuto con un coltello “tantō” (lo stesso utilizzato da Madama Butterfly e dai samurai che si suicidavano lontano dal campo di battaglia), ossia una lama lunga dai 15 ai 30 centimetri, o con un “kaiken” di 15 centimetri, spesso nascosto sotto la cintura del kimono.

La motivazione principale del suicidio rituale era, come accennato, la preservazione dell’onore. Non era insolito, infatti, che le donne giapponesi si ritrovassero prede di violenze, stupri e abusi in occasione di sconfitte militari, o che, in generale, versassero in condizioni ostili tali per cui avrebbero perso la propria dignità.

Dignità da conservare in ogni circostanza, anche dopo la morte. Proprio per consentire di rinvenire il corpo in una posa composta ed elegante, le donne che praticavano lo jigai erano solite legare insieme le ginocchia, al fine di limitare le convulsioni precedenti alla dipartita definitiva e cadere in avanti atterrando con la faccia nel terreno.

Una pratica cui le donne erano iniziate fin da piccolissime, e alla quale era possibile fare ricorso anche in età adolescenziale, verso i 13/14 anni – nel caso in cui, per esempio, bambine (e bambini) corressero il rischio di essere deportate, disonorate o catturate durante la caduta di una fortezza.

Lo scopo era, appunto, quello di morire nel modo più veloce e dignitoso possibile, non offrendo ai nemici spettacoli “indecorosi” e preservando, fino all’esalazione dell’ultimo respiro, l’onore che, in vita, non si era riusciti a proteggere al meglio.

Jigai e harakiri: similitudini e differenze

Onore e dignità erano prerogative essenziali della società giapponese, in particolar modo nell’antichità. Al punto che, nel periodo Edo, il suicidio (“seppuku”, o “harakiri”) acquisì tempi, regole e condizioni precise. In definitiva: venne regolamentato.

I samurai che decidevano di togliersi la vita, infatti, lo facevano – come si legge su Musubi – davanti a una platea di “spettatori”, indossando un vestito bianco (colore utilizzato per le sepolture) e componendo, spesso, un poema che spiegasse motivazioni del gesto e valori rispettati in vita.

Per conservare l’integrità anche in seguito alla morte, inoltre, fu introdotta la figura del “decapitatore”, una persona degna di amicizia o di profondo rispetto che interveniva affinché il taglio del ventre evitasse di deturpare il viso del suicida facendo sorgere una smorfia di dolore. Come? Decapitandolo appunto, con un taglio netto e preciso che consentisse alla testa di rimanere al proprio posto mentre il seppuku cadeva in avanti dissanguato.

A differenza dell’harakiri, la pratica dello jigai non era regolata da protocolli standard, ma, come abbiamo visto, non mancava di presentare regolarità e cerimoniali precisi. Con una differenza: nel caso del suicidio femminile, infatti, non era prevista la figura di un “assistente”, bensì la donna compiva il gesto in completa autonomia (motivo per cui, dopo la morte, non era insolito scorgere un minimo sfiguramento del volto), o tagliandosi la vena giugulare con un colpo secco, o colpendosi il ventre (ritenuto la sede dell’anima).

In ogni caso – uomini o donne, collo o ventre –, le ragioni alla base del gesto erano le medesime: proteggere il proprio onore fino alla fine, manifestando, mediante il suicidio, un atto di protesta, giustizia, ribellione, dignità.

Il suicidio venne abolito come pratica “governativa” nel 1873, poco dopo l’inizio della restaurazione Meiji. Da allora – e ancora oggi – esso si configura meramente come un atto su base volontaria, come dimostra il caso più recente ed emblematico che ha coinvolto lo scrittore Yukio Mishima – il quale si è tolto la vita nel 1970 per opporsi a un Giappone sempre più “occidentalizzato” e “moderno”.

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