Tutti vorremmo vivere in un ambiente sano, pulito, non inquinato e garantire alle persone che stanno vicino la tutela della salute. E i rifiuti, l’inquinamento, le scorie tossiche? «Not in my backyard» come dicono alcune organizzazioni statunitensi: non nel mio cortile.

Peccato che, non potendo sparire, tutti gli scarti della società capitalistica debbano finire nel cortile di qualcuno e che questo qualcuno siano sempre le popolazioni minoritarie, nere, latine, del Sud del mondo e povere. È il razzismo ambientale, meno noto di quello che vediamo ogni giorno ma non meno pericoloso.

Cos’è il razzismo ambientale?

Il termine “razzismo ambientale” è stato coniato nel 1982 dal leader per i diritti civili afroamericano Ben Chavis, ma la storia di questo fenomeno è molto più datata. Si tratta di una delle manifestazioni del razzismo sistemico a causa del quale le popolazioni minoritarie più povere e marginalizzate – neri, latini, immigrati – sono costrette a vivere in prossimità di aree potenzialmente tossiche (industrie, discariche….), ad avere meno accesso a spazi verdi e a subire un tasso di inquinamento sensibilmente più elevato.

Già nel 1987 la United Church of Christ aveva diffuso un documento dal titolo “Toxic Waste and Race in the United States” in cui riportava i risultati di un’indagine condotta dal 1982, che non lasciavano spazio a interpretazioni:

I risultati dello studio analitico sull’ubicazione di impianti di rifiuti pericolosi suggeriscono l’esistenza di schemi chiari che mostrano come sia più probabile che le comunità con maggiori percentuali di minoranza della popolazione siano i siti di tali strutture. La possibilità che questi modelli risultino per caso è virtualmente impossibile, e suggerisce fortemente che alcuni fattori sottostanti, che sono correlati alla razza, abbiano svolto un ruolo nella localizzazione delle strutture di raccolta dei rifiuti pericolosi commerciali. Pertanto, la Commissione per la giustizia razziale conclude che, in effetti, la razza è stata un fattore nella localizzazione delle strutture per rifiuti tossici negli Stati Uniti.

Quali siano gli effetti del razzismo ambientale sulla salute, è purtroppo noto e ampiamente studiato:

i bambini afroamericani hanno cinque volte più probabilità di avere un avvelenamento da piombo a causa della vicinanza ai rifiuti rispetto ai bambini caucasici, mentre gli americani di colore che guadagnano 50-60.000 dollari l’anno hanno più probabilità di vivere in aree inquinate rispetto alle loro controparti bianche che guadagnano 10.000 dollari.

E la situazione non è migliore per le popolazioni latine: secondo Green Latinos i latinoamericani che vivono in aree in aree in cui l’aria non rispetta gli standard di salute pubblica stabiliti dell’EPA sono addirittura 1 su 2.

Sebbene il termine razzismo ambientale sia nato negli Stati Uniti e sia spesso stato utilizzato per descrivere la condizioni delle comunità minoritarie negli USA, il razzismo ambientale non è un fenomeno esclusivamente statunitense, anzi.

È stato osservato che anche nel Regno Unito i bambini neri hanno il 30% di possibilità in più di essere esposti all’inquinamento rispetto ai loro coetanei bianchi, mentre un’inchiesta del 2002 ha mostrato come l’incidenza del saturnismo nell’Île de France abbia una connotazione razziale: tra oltre mille edifici insalubri censiti a Parigi, l’80 per cento sono abitati da immigrati africani sub-sahariani a basso reddito (1 su 4 guadagna meno di 300€ al mese in una delle città più costose del mondo).

Ma gli effetti più drammatici di questa sistematica ingiustizia sociale vengono pagati dalle popolazioni del Sud del mondo, obbligate ad accogliere tonnellate dei rifiuti che produciamo ogni giorno e colpite in maniera più drastica dagli effetti del cambiamento climatico e dell’innalzamento delle temperature.

Le cause del razzismo ambientale

Individuare le cause del razzismo ambientale significa tornare alle cause stesse del razzismo, perché esso altro non è che l’ennesima sfaccettatura di ingiustizia e discriminazione nei confronti delle popolazioni storicamente ritenute inferiori e costantemente disumanizzate per essere mantenute in una posizione di subalternità.

È stato proprio il razzismo sistemico a influenzare a lungo le zone in cui si trovano le principali fonti di inquinamento all’interno delle comunità e la geografia dell’inquinamento riproduce quasi esattamente quella della segregazione razziale: a partire dagli inizi del XX secolo, infatti, i pianificatori del governo hanno ridisegnato le mappe identificando i quartieri neri e latini come indesiderabili e meno degni di prestiti per la casa e autorizzando di fatto l’industria pesante a raggrupparsi in quei luoghi, generando una dimensione tossica che persiste ancora oggi e le cui conseguenze verranno pagate per anni e anni ancora.

Marginalizzate, con scarso peso politico e minor rappresentanza, non solo all’interno degli organismi decisionali ma anche dei gruppi ambientalisti organizzati, e con una minore capacità di resistere alle decisioni calate dall’alto che prevedono la costruzione di fabbriche o discariche vicino alle loro abitazioni: alla radice del razzismo ambientale ci sono sempre gli squilibri di potere che vedono queste comunità in una posizione di debolezza, inascoltate.

A questo si aggiunge il fatto che, per le compagnie è più conveniente inquinare queste aree: anche nei casi in cui vengano sanzionate – molto rari, come ha mostrato un report della Commissione per i Diritti Civili – le multe tendono a essere più basse nelle comunità nere e povere, secondo le ricerche di Dorceta Taylor, professoressa alla Yale School of the Environment e autrice di Toxic Communities: Environmental Racism, Industrial Pollution, and Residential Mobility. Questo innesca un circolo vizioso: multe più basse significa maggior inquinamento, minor valore dei terreni in prossimità di fabbriche e discariche e maggiore appetibilità di queste zone per le industrie inquinanti.

Le conseguenze del razzismo ambientale

Sebbene l’attenzione si concentri spesso su altri aspetti del razzismo sistemico – la violenza della polizia, la possibilità di accedere ad alloggi o la discriminazione sui luoghi di lavoro, ad esempio – la realtà è che il razzismo ambientale è una delle principali cause di morte nelle comunità marginalizzate, soprattutto tra le persone nere. Secondo Scientific American,

L’inquinamento atmosferico e il caldo estremo stanno uccidendo i residenti dei centri urbani a un tasso più elevato di quasi tutte le altre cause. E poiché le temperature medie continuano a salire, contribuendo a quello che gli scienziati chiamano”effetto isola di calore urbana”, si prevede che la morte e le malattie dovute agli effetti del cambiamento climatico aumenteranno ulteriormente.

Patologie croniche e tasso più alto di decessi non sono però l’unica conseguenza del razzismo ambientale, che ha anche un costo economico elevato, tanto più che si riflette su comunità tendenzialmente più povere – sebbene alcuni studi abbiano dimostrato che più che il reddito sia la razza il fattore discriminante all’origine delle disuguaglianze ambientali.

Un documento dell’Università della California, Berkeley’s Energy Institute di Haas, ha rilevato che, controllando per anno, reddito, dimensione del nucleo familiare e città di residenza, gli affittuari neri pagavano 273 dollari in più all’anno per l’energia rispetto agli affittuari bianchi tra il 2010 e il 2017.

Ma il razzismo ambientale ha influenzato anche gli effetti della pandemia di Covid-19, che in queste comunità ha avuto tassi di contagio e mortalità più elevate.

Secondo i ricercatori delle università di Stanford e Duke, più della metà di tutte le morti in ospedale dall’inizio dell’epidemia negli Stati Uniti fino a luglio 2020 erano di pazienti neri e latini, mentre i pazienti neri avevano molte più probabilità di richiedere ventilazione.

Se il tuo codice postale è sepolto da immondizia, impianti chimici, inquinamento … scoprirai che ci sono più persone malate, più diabete e malattie cardiache. […] Il Covid è come un missile a ricerca di calore che punta alle comunità più vulnerabili.

Ha detto Robert Bullard, professore alla Texas Southern University e autore di “Dumping in Dixie: Race, Class and Environmental Quality.

3 storie di razzismo ambientale

Potremmo fare centinaia di esempi di razzismo ambientale, da ogni parte del mondo. Ne abbiamo scelti 3, per mostrare cosa significa davvero che le persone subiscano sulla loro pelle l’effetti dell’inquinamento in maniera drammaticamente maggiore, non solo per il fatto di non avere la pelle bianca ma a causa della volontà o delle azioni delle comunità (bianche) dominanti.

North Carolina, dove è nato il “razzismo ambientale”

Quello del North Carolina è un caso emblematico di razzismo ambientale, avvenuto prima ancora che questo termine esistesse. Nell’autunno del 1982, un gruppo di abitanti della contea di Warren protestò per sei settimane contro l’installazione di una discarica di rifiuti tossici. La protesta non ebbe successo e la discarica, costruita due anni dopo, è stata smantellata solo negli anni duemila.

Nonostante questo, quello del North Carolina è un caso fondamentale perché, per la prima volta, la protesta non si è concentrata solo sull’impedire la costruzione della discarica, ma sul perché fosse stata scelta proprio quell’area, abitata al 64% da neri, una percentuale che saliva al 75% nelle immediate vicinanze del sito.

Per la prima volta, si mettevano in relazione la razza e l’ingiustizia sociale con l’inquinamento e la tutela dell’ambiente. Chavis era uno dei leader di quella rivolta e, mentre un poliziotto lo sbatteva in cella, gli gridò contro «This is racism. This is environmental racism». Un movimento era nato.

L’acqua di Flint

Immaginate di aprire l’acqua del rubinetto una mattina e trovarla marrone, maleodorante e sgradevole al gusto. Immaginate che questo accada giorno dopo giorno e immaginate che, mentre voi vi lamentate, il dipartimento della sanità del comune assicuri che l’acqua era sana e potabile.

Immaginate poi di scoprire, dopo mesi, che a causa di una cattiva gestione degli impianti, quell’acqua sia tossica e ricca di piombo e che un’intera città l’abbia bevuta e utilizzata ogni giorno per circa un anno e mezzo – dopo costanti rassicurazioni – senza che le autorità facessero nulla per fermare la contaminazione. E immaginate che tutto questo sia accaduto, banalmente, per la volontà dell’amministrazione di risparmiare.

È quello che è successo a Flint, nel Michigan, solo pochissimi anni fa, nel 2014.
Perché parliamo di razzismo ambientale? Dopo l’abbandono della città da parte della General Motors negli anni ’80, Flint ha attraversato una grossa crisi economica: oggi, il 40% degli abitanti vive sotto la soglia della povertà, mentre il 50% della popolazione è nera.

“Se Flint fosse stata ricca e per lo più bianca, il governo del Michigan avrebbe risposto più rapidamente e in modo più aggressivo alle proteste sulla sua acqua inquinata dal piombo?” scriveva il New York Times nel 2016. Senza dubbio, sì.

La desertificazione del Sahel

Quando diciamo che a pagare il prezzo del cambiamento climatico sono soprattutto i paesi del Sud del mondo, forse non ci rendiamo conto di quando questo sia vero e, soprattutto, di quanto le azioni dell’Occidente industrializzato abbiano ricadute sulle popolazioni più fragili.

È il caso dell’area del Sahel, nell’africa sub-sahariana, che a causa dell’aumento delle temperature e degli eccezionali fenomeni meteorologici causati dal cambiamento climatico (siccità, inondazioni…) si sta rapidamente desertificando. Le piante non riescono più a maturare prima del sopraggiungere della siccità, con conseguenze drammatiche sulle popolazioni locali, la cui sussistenza è basata esclusivamente sull’agricoltura, che sta progressivamente scomparendo.

Razzismo ambientale e questione femminile

Quella del razzismo ambientale è una questione di razza, ma anche di genere. Le donne, infatti, sono doppiamente vulnerabili, poiché doppiamente discriminate. Già nel 1995 Susan L. Cutter aveva definito donne e bambini le “vittime dimenticate” dei mutamenti climatici e ambientali e tutt’ora non ha cambiato idea.

Tra il 1981 e il 2002, confermano gli studiosi della London School of Economics, i disastri naturali hanno ucciso di più le donne e ad una età più giovane rispetto agli uomini; nei paesi in cui maggiore è la discriminazione verso le donne, maggiori sono i rischi che esse corrono nel caso di disastri ambientali. Ma è stato l’uragano Katrina a rivelare l’intreccio di discriminazioni, di classe, di razza, di genere che ha determinato la vulnerabilità. Le donne povere, di colore, le anziane, le persone queer e transgender hanno avuto le maggiori difficoltà di accedere ai soccorsi. Come in Bangladesh le donne che avevano gli anziani e i bambini da proteggere non riuscirono a mettersi in salvo.

Ma non è solo questo: secondo uno studio, infatti,

le donne tendono a subire oneri ambientali ingiusti; e hanno meno probabilità degli uomini di avere il controllo sulle decisioni ambientali, che hanno entrambi un impatto sulla loro salute.

Marginalizzate tra i marginalizzati, inascoltate tra gli inascoltati, le donne subiscono più fortemente l’impatto del razzismo ambientale sia in termini di conseguenze dirette che di capacità di intervento.

Già dagli anni ’70 il femminismo e le varie declinazioni degli ecofemminismi hanno evidenziato la forte interrelazione tra lo sfruttamento delle donne e quello dell’ambiente e degli animali non umani e come fosse impossibile lottare per le une lasciando indietro gli altri. Una prospettiva che potrebbe aiutarci a trovare una chiave per liberarci del razzismo ambientale.

Razzismo ambientale: come superarlo

Combattere il razzismo ambientale non è facile, sopratutto perché, come abbiamo visto, superarlo significherebbe superare il razzismo sistemico e ripensare dalle basi la società in cui viviamo.

Iniziare a parlarne, però, potrebbe essere un inizio: sebbene sia ormai noto da decenni, ancora oggi è un fenomeno poco dibattuto e poco studiato, soprattutto in nel nostro paese, come mostra uno studio proprio sullo stato della ricerca sulla giustizia ambientale in Italia.

Garantire maggiore rappresentatività alle popolazione che ne sono colpite potrebbe essere un altro passo, non solo all’interno degli organismi decisionali, ma anche all’interno delle organizzazioni ambientaliste, a oggi prevalentemente bianche. Secondo un sondaggio del 2007, quasi il 90% degli ambientalisti negli Stati Uniti erano bianchi non ispanici, anche se all’epoca quel gruppo costituiva solo il 62% della popolazione. Questa mancanza di rappresentanza era problematica già allora e potrebbe diventarlo ancora di più, considerando che secondo le statistiche entro il 2044 i bianchi non ispanici costituiranno meno della metà della popolazione statunitense.

Come abbiamo visto, però, anche lo sguardo femminile e decololoniale degli ecofemminismi, può essere fondamentale per cambiare la prospettiva: dobbiamo ricordarci che non si può cambiare il clima – e l’ambiente – ma è necessario cambiare il sistema per garantire a tutte e tutti sopravvivenza e giustizia.

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